Questa è una storia di fantasia intitolata “Un Barbone Barone” di Nausicaa Duello, basata su una storia vera.
Il sole era caldo quella mattina. Dopo una notte gelida e bagnata, quel calore aveva un sapore quasi più dolce del vino. Il vino: poteva scaldarlo e ammazzarlo. Avrebbe dovuto smettere di berlo. Lo diceva sempre anche il fantasma che gli tormentava la mente.
Seguitava ad implorarlo: “Hai il fegato a pezzi e i reni non funzionano più! Non lo senti il fetore del tuo piscio?” “Che m’importa? Lasciami perdere, dannata perfida voce! Lasciami crepare in pace!”Però, un poco gli dispiaceva di crepare, perché a quella piazza voleva bene.
Voleva bene al marmo freddo della panchina su cui amava dormire d’estate e al cantuccio che s’era ricavato nell’atrio della chiesa e che lo riscaldava d’inverno. Soprattutto, voleva bene agli studenti: quelli che passavano di fretta ma gli lasciavano una sigaretta o un paio d’euro. E quelli che restavano, condividevano un bicchiere e una storia e, sempre, gli chiedevano la sua.
Il barbone ne raccontava ogni volta una diversa: un giorno era uno straniero in cerca di ventura, un altro un marinaio perdutosi in mare. Diventava a suo piacimento un ubriacone o un dottore. Per alcuni era stato Principe. Nobile. Marchese. Per altri solo un randagio, figlio di una gatta di strada. Che tanto i suoi ricordi, quelli veri, li aveva persi. Abbandonati.O forse erano rimasti nell’immondizia da cui era venuto.
Di certo non ce n’era traccia fra la roba che conservava nel carrellino. Poi gli dava la nausea cercarli, gli facevano male. Oppure quel male era dovuto solo al vino.
Il vino: fece un ultimo lungo sorso- in barba a quella stronza che gli blaterava nella testa- e gettò il cartone in strada. Una strada sporca come la sua faccia. Ne era consapevole. Spesso si era specchiato nelle foto che gli scattavano i ragazzi con quei loro telefoni imbellettati.
Soprattutto, sentiva l’odore aspro, forte che faceva storcere il naso ai turisti. Che tingeva di disprezzo il ghigno delle signore che andavano alla messa. Che gli importava! Acqua e sapone non cancellano paure e ossessioni ed erano quelle le sue macchie! L’anima non può essere lavata. Il sole era ancora gentile quando si mise in piedi, in cerca di sigarette. Ma c’era un vento forte. Gli tirava i capelli, gli graffiava il viso. Eppure lui non ne era infastidito: era un vento buono che parlava di libertà. Era dello stesso spirito che gli animava il corpo. Si lasciò cullare e trasportare fino al bar dove si fermava tutti i giorni. Il barista era un suo amico.
Voleva bene anche a lui: era gentile, gli regalava sempre un pacchetto di sigarette e ogni volta lo salutava spendendo qualche bella parola: ” Sei un povero nobile, tu! ” “Sei un brav’uomo !” ” Dio ti benedica!”. Ma Dio non lo benediva mai. Che forse ce l’aveva con lui. E in quel giorno, poi, doveva essere particolarmente incazzato. Non appena il fumo ispirato gli toccò i polmoni, sentì il sapore di bile sulla lingua. Odorava di ferro e ruggine. Vomitò sangue. La testa cominciò a girare, le forze mancarono. Si accasciò a terra. Su quella strada sporca come la sua faccia.
“Stai morendo.” Sussurrò il fantasma dei suoi pensieri. E aveva ragione. Qualcuno venne a soccorrere il barbone: “Resisti ancora un po’! Ti portiamo in ospedale!”Furono le ultime parole che riuscì a sentire. L’ambulanza. La folla. I paramedici. Tutto si dissolse, tutto fu lontano.Lui era altrove.
Alla finestra di un edificio, per superstizione soprannominato ” Palazzo Degli spiriti”. Era un luogo che il barbone riconosceva, dove sapeva di essere stato molti anni prima. E, come era accaduto molti anni prima, cadeva. Cadeva nel vuoto. Cadeva mentre in un tempo distante qualcuno provava a salvarlo, a rianimarlo. Cadeva e ricordava.
Tutti i ricordi- fino ad allora negati- tornavano impetuosi dall’immondizia in cui li aveva lasciati, per precipitare con lui. Erano ricordi che bruciavano. Più dello stomaco. Più della morte.
C’era stata una casa e una famiglia: due genitori semplici e fratelli con cui giocare, con cui litigare. C’era stata una donna: ne aveva avute tante, ma lei era quella che più aveva amato baciare. Ora se ne ricordava anche il profumo. Era un odore buono, di fiori, di vita, d’amore. C’erano state due bambine. Le sue bambine, con i suoi stessi occhi di quel blu profondo e scuro. Bambine belle come l’aria, come l’acqua. In un’altra vita, poi, c’era stata lei: la piazza. La strada su cui era caduto. La strada che lo aveva nascosto e protetto. La strada su cui, adesso, moriva. Moriva mentre nel sogno toccava l’asfalto, e come in passato ne risentiva il sapore di sporco, il dolore del buio.
Lontano, in una sala operatoria, i medici rassegnati ascoltarono, in un sospiro, la sua ultima storia. “Mi chiamo Antonio. Sono un barone barbone. Venni al mondo non troppo tempo fa, con un tetto sulla testa, e ora, sotto il cielo muoio. Muoio, ma non me ne vado.
Resterò nella sporcizia di questa città, decaduta come me. Resterò nei sampietrini che fanno inciampare le ragazze con i tacchi. Resterò come un’ombra della mia panchina di marmo. Sarò nel suono delle campane la domenica mattina e nella musica degli artisti di strada. Nelle pagine dei libri sfogliati a Port’Alba. Resterò tra i pulcinella fregati dal tempo. Nelle superstizioni, nelle storie ai turisti. Nella libertà che respirano gli studenti. Sarò il mare. Quel mare che in vita m’aveva bagnato gli occhi”.
-Nausicaa Duello
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