Via Belvedere è il punto di contatto fra l’antico ed il nuovo, la Napoli antica e moderna unite in cento metri di asfalto.
Molti dicono che il Vomero è un quartiere senza storia, senz’anima, un fortunato mucchio di palazzi nato dalla speculazione edilizia del Risanamento e dalla cieca fame di denaro dei palazzinari degli anni ’50. Anzi, all’apparenza sembra che l’unico piccolo superstite, briciola di una storia millenaria, sia il borgo di Antignano, lasciato miracolosamente salvo dal “piccone risanatore” fascista.
Antignano non era un tempo parte della zona. Anzi, quello alle spalle di Piazza degli Artisti era un piccolo villaggio abbastanza lontano proprio dal Vomero.
Via Belvedere e il gioco del Vomere
Nascosta da Via Cilea come gli antichi vicoletti del Porto furono nascosti da Corso Umberto, proprio Via Belvedere è l’ultima vera testimonianza, il racconto delle origini del Vomero: dalle case degli anni ’60 a S.Maria della Libera, passando per i palazzoni di 300 anni fa a Calata San Francesco, fino ad arrivare alle eleganti villette dei primi del ‘900 a Via Aniello Falcone. Una sola strada è il punto d’incontro di più di due millenni di storia.
La storia di Via Belvedere, per giunta, comincia esattamente 2200 anni fa, quando fu inaugurata l’antichissima Via Puteolim Neapolis per colles, un percorso creato dai coloni greci che, poi, fu migliorato proprio all’arrivo dell’Impero Romano a Napoli.
La strada collegava Pozzuoli al Centro Storico passando per Via Santo Stefano, Via Belvedere e poi Antignano, che, sembra, prese il nome proprio dalla strada, chiamata anche Antiniana.
Perché il villaggio di Via Belvedere sia stato chiamato “Vomero“ è un bel mistero, ma sembra che, proprio nella zona di Via Cilea, i contadini avessero istituito una sorta di olimpiadi bovine: il giorno del gioco del Vomere era infatti il momento in cui si ritrovavano tutti gli agricoltori della zona che, dopo aver legato un aratro al miglior bovino del proprio campo, provavano a tracciare un solco nel terreno quanto più possibile dritto e lungo, sfidando gli altri a far di meglio.
Fino a settant’anni fa, proprio gli antichi contadini, ultimi testimoni delle campagne, delle coltivazioni di broccoli e degli immensi campi di fiori raccontati da tutti i poeti napoletani, parlavano di “Vomero Vecchio” e “Vomero Nuovo“, come se volessero distinguere due mondi, come se ci fosse una crisi di rigetto nei confronti del cemento che aveva distrutto i luoghi della loro vita.
Garibaldi voleva trasferire al Vomero i poveri di Napoli
In realtà la distinzione fra “vecchio” e “nuovo” Vomero fu introdotta anni prima dai Savoia, nel 1880, quando fu costruita Via Scarlatti: il nuovo rione, infatti, doveva nascere sul modello di Parigi e Torino, spazzando via le antiche tradizioni contadine per rendere le colline di Napoli una sorta di residenza d’élite, un luogo per soli nobili e borghesi ricchi. Garibaldi, invece, aveva chiesto a più riprese di costruire case sulle colline per ospitare le classi proletarie che, di lì a poco, sarebbero state sfrattate e lasciate senza un letto, per costruire Santa Lucia e Corso Umberto.
Arrivarono poi gli anni della Speculazione, delle concessioni edilizie degli anni ’50: il cemento mangiò la storia e la memoria dell’antico villaggio, mentre il tempo pensò a portarsi via la vita e le testimonianze degli ultimi superstiti che popolarono l’antico villaggio del Vomero e lo videro sparire assieme alla loro giovinezza. Bastò poco per confondere vecchio e nuovo e così, dimenticando il passato, Vomero antico e moderno divennero un unico quartiere che “rubò” il nome proprio al villaggio di Via Belvedere.
E così, mentre i racconti delle nonne sono lo straccio delle ultime memorie dei figli dei veri abitanti del Vomero, l’unica cosa che sopravvive oggi è una piccola targa, che testimonia l’esistenza dell’antico villaggio, nascosta in un palazzo di circa 200 anni fa a Calata San Francesco:
-Federico Quagliuolo
P.S.
Molti credono che Via Belvedere si chiami così perché, un tempo, c’era un magnifico panorama. In realtà c’è un po’ di confusione linguistica: si riferisce alla Villa Carafa di Belvedere. C’è anche la scuola media Andrea Belvedere, un abate del ‘600 che amava dipingere, tanto da diventare uno dei più importanti pittori di fiori e natura morta del suo tempo.
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