Sirio, il mio migliore amico
“Sirio, il mio migliore amico” – Illustrazione di Lisa Taiga Nagisa

La sala d’attesa di uno studio veterinario è ironicamente un luogo non abbastanza caotico, a dispetto di quanto si possa pensare. Padroni e animali osservano curiosi ma silenziosi, afflitti dalle loro incalzanti perplessità. Qualcuno trattiene a fatica la preoccupazione, altri sorridono e giocano per stemperare l’attesa.
Accarezzo Sirio con la mano destra, mentre poggia a fatica il muso sulla mia coscia. Perde peli con una facilità irrisoria. Il naso troppo secco, il tremore costante. Vorrei che questa paura non stringesse così tanto la sua morsa con infame potenza.
“Ora puoi salire, ti do una mano”
“Ce la faccio”
E’ pesante ma effettivamente riesco a portarlo di sopra. Per me è sempre un cucciolo ma il corpo adulto dice il contrario.
Sirio è un incrocio di taglia media tra un pastore belga e un meticcio: il pelo di un nero pece, il bianco su zampette e torace. La cartilagine del suo orecchio destro è fallace, di conseguenza l’effetto scaturito è molto buffo allo sguardo, e ha la bontà di riuscire a non macchiare la sua bellezza.
Sono un perfezionista, non ho lasciato nulla al caso nemmeno per il nome: Sirio è infatti la stella più luminosa nella costellazione del Cane Maggiore. Un preziosismo che ho sempre adorato.
Non è stata l’unica opzione: un amico milanista voleva chiamarlo Clarence, come Seedorf. La mia prima scelta era invece Poldo, come il dalmata de “La Carica Dei 101”. Ma quando utilizzai quel nome stellare, fin dal  principio era solito girarsi immediatamente.
Che illuso che sono. Aveva scelto lui, in fondo.
Lo adagiamo in un gabbione, aperto. L’ennesima flebo su una cute ormai corroborata da buchi. Prendo una sedia, mi pongo di fronte a lui. Deve sapere che non lo lascerò solo, nemmeno questa volta.
Sento la voce dell’infermiere: “Hai un aspetto di merda, dovresti andare a riposare”. Ha ragione, non dormo da due giorni.
Neanche rispondo, e comprensibilmente va via.
Devo trovare la volontà per vivere tutto questo.
Quando quattordici anni fa degli amici di famiglia portarono Sirio a casa lui aveva meno di un anno, un altro nome decisamente dimenticabile, che infatti non ricordo, e si trascinava faticosamente sulle zampe anteriori. Quelle posteriori gliele spezzarono, mai scoperto chiaramente il perché: pensammo a qualche bastonata o ad un’auto maldestra. Lo trovarono la notte della vigilia di Natale, fu operato: rischiarono di perderlo ma il bastardello aveva la stoffa dell’incassatore. Cercava famiglia, nessuno lo volle per paura di dover accudire un perenne handicappato con pezzi di ferro addosso.
Ricordo ancora il momento della definitiva epifania. Ero seduto sul divano, lo sguardo titubante dei miei genitori pareva una cappa di umidità in una serata settembrina. Questo cosetto tutto pelo e tenerezza si avvicina, con la poca forza che ha, e fissa il mio volto.
Mi persi nei grandiosi occhi nocciola, quelli di un randagio dallo spirito libero e dalla voglia d’amore, e capii cosa avrei dovuto fare. Eravamo già legati. Dovevamo solo scoprirlo.
Indesiderati, reietti, incompresi. Ma almeno non saremmo stati soli, da quel momento in poi.
Ricordo benissimo anche la prima volta che riuscì a camminare, saltare e correre normalmente. In una via Cilea affollata e giudicante, aveva vinto i pregiudizi di tutti. Una conquista perseguita con fiducia e un cuore battagliero. Non è mai stato un animale arrendevole, nonostante le tante sofferenze  patite.
Non è arrendevole persino ora, che a stento riesce a tenere gli occhi aperti. Indebolito, ammalato, stanco. Ma sta lottando, è un guerriero pronto ad affrontare il suo destino con dignità e consapevolezza.
La fine della strada è chiara ad entrambi. Ed è per questo che ho il dovere di restare qui.
La genesi dei problemi è da ricercare un paio di anni addietro: un tumore al testicolo, rimosso. Ma la vecchiaia e una genetica compromessa hanno peggiorato tutto: milza ingrossata, reni danneggiati, sanguinamenti copiosi, incontinenza grave.
Qualche giorno fa, quando ha smesso di camminare, ho avuto la situazione molto più chiara. Come un countdown inesorabile, una clessidra che non puoi rigirare. Uno schiaffo in faccia fintamente inatteso: in realtà, il messaggio indesiderato che purtroppo attendevo.
Trema per via delle sue difficoltà renali, a volte sbuffa. Tendo la mano per grattargli il mento e abbozzo un sorriso. Si calma, ha fiducia. Non spezzerò il nostro patto.
E’ trascorsa ormai un’intera giornata. Qualche nuvola inizia a coprire il cielo. Anche i miei genitori ci raggiungono. Mio padre parla poco e osserva molto. Lui e Sirio hanno un rapporto speciale: sempre taciuto, mai esplicato. Poche coccole, pesate e controllate, come si fa con chi si vuole bene sul serio per fingere che invece non sia vero. Vorrebbe dirgli qualcosa ma non lo fa: forse sa che è meglio così.
Non riesco più di vederlo soffrire, torturandosi dolorosamente. E non si può che prendere la decisione più ragionevole, la più sofferta. La paura monta perché inizio a vedere l’asfalto mancare all’orizzonte. Non ci sono più collegamenti, e i lavori sono ormai interrotti.

Lo poggiamo sul lettino. Non sono pronto, non lo sarò mai.
In questi quattordici anni ho capito molte cose. Che posso dare amore, a me stesso e a qualcun altro. Che dalla sofferenza si può sempre rinascere, anche quando sembra impossibile. E alla mente ritornano tutti i momenti trascorsi insieme: le passeggiate in Floridiana, le zuffe con gli altri cani, le cazziate a fin di bene, lo scodinzolare felice della sua coda. Gli abbordaggi alle altre ragazze in discesa serale, le coccole dopo una delusione, la voracità dei pasti, le scarpe nuove distrutte dai denti, la pacatezza di un animale che sapeva stare al suo posto e sceglieva il momento giusto per amare incondizionatamente.
Mano sinistra sul cuore, la destra per accarezzarlo ancora.
La mia paura più grande è quella di non aver dato il massimo, di non aver potuto fare altro. La mia speranza, invece, quella di aver potuto almeno ricambiare quanto splendidamente offertomi.
Le persone che non hanno un animale probabilmente non possono capire, e banalmente direi che non lo capiranno mai. Perché non si tratta di dimostrare qualcosa a sé stessi, di fare una buona azione o mettersi a posto la coscienza. Non è una questione di pietà, perbenismo, illusioni.
Si tratta semplicemente di amare. Ed io ho amato, tanto, venendo corrisposto in ogni singolo secondo di questi anni.
Trattengo a fatica le lacrime. Raccoglie le ultime forze, incrocia il mio sguardo. Per l’ultima volta.
“Sei stato un amico meraviglioso. Ti voglio bene, e sarò sempre con te. Non ti dimenticherò mai”.
Tutte le storie più belle finiscono. Persino questa. Il mio cuore si spegne.
Anche il suo.
Ora posso finalmente piangere.

Torno a casa nel silenzio più triste. Prendo a calci qualsiasi cosa: la busta delle medicine, le siringhe, i tutori, le fottute ecografie.
Nessuno fiata, perché questo è il mio dolore.
Ho timore che questa rabbia possa portarmi via da lui, trascinarmi in un feroce limbo di inconsapevolezza e rigetto.
Poi però pesco nelle tasche della felpa. C’è il suo collare. E’ rosso, il mio colore preferito.
Ripeto, non lascio nulla al caso.
Talmente arrabbiato e infuriato, nonostante le promesse stavo smarrendo il pensiero maggiormente importante: nessuno svanisce per sempre se puoi farlo sopravvivere dentro di te.
Non so se ci sarà un altro cane nella mia casa, o se sarà in grado di mettermi in gioco nuovamente.
So bene, invece, ciò che ho vissuto. Ne riconosco l’incalcolabile valore, e se potessi tornare indietro rifarei ogni singola scelta. A partire da quello sguardo d’intesa che ha fatto sbocciare ogni cosa.
Inevitabilmente al mio Sirio posso dire grazie. Per un’adolescenza ilare, una crescita costante. Per le piccole gioie, per aver condiviso, sofferto, scherzato. Per aver reagito, combattuto, vinto. Per aver fatto tutto questo, sul serio, insieme.
Grazie Sirio, sarai per sempre il mio migliore amico.

 

Claudio Agave

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