“Forza olio” è una di quelle espressioni che mi han sempre fatto ridere quando si parla di mare. A dispetto di una presunta ricercatezza o fantasiosa voglia di sentirsi esperti, ho sempre preferito definire questo piattume marino con un semplice “calmo”. Una parola bellissima, che in fondo mi rispecchia pienamente: perdo il controllo solo se si parla d’amore.
Quindi praticamente sempre.
La distesa di scogli su cui il mio culo riposa è perfetta per il panorama. Vedo ogni cosa: le isole all’orizzonte, la gente che passeggia sotto il caldo asfissiante, il pescatore che bestemmia perché l’amo non produce effetti. Sono il padrone del Lungomare di Napoli, e me ne rendo conto solo adesso.
Finalmente arriva. La sento senza nemmeno girarmi perché con le scarpe fa rumore cercando di non inciampare goffamente tra i massi.
“Serve una mano?”
“Faccio da sola, grazie”. Come sempre.
Ho conosciuto Giulia durante una serata di beneficenza: da giornalista poco furbo quale ancora sono dimenticai l’accredito a casa e dovetti tornare di corsa, salvo poi smarrirvi l’ombrello. Un dettaglio non da poco quando sei in smoking sotto il diluvio e con il freddo nelle ossa.
Ingresso poco trionfale in una sala gremita. Ovviamente inzuppando tutto e tutti, come in una scena del peggior film comico. Una figuraccia tale che avrei potuto solo immaginarla. Dopo, invece, ho avuto il privilegio di sognare ad occhi aperti quando questo splendore umano mi ha sorriso, porgendomi un fazzoletto.
Sua madre aveva organizzato l’evento per i bambini dei quartieri difficili, per chi una casa non la possedeva più e anche per gli extracomunitari. Mi riferiva che il senso della condivisione in fondo è proprio questo: stare uniti nelle diversità. Non potevo che essere d’accordo.
Parlammo per tutta la sera, di ogni cosa: i film di Sorrentino, la musica di Pino Daniele, l’arte di Monet, la Brexit, il Castel Dell’Ovo e persino Higuain. Ogni parola pronunciata da quelle labbra profumate e incandescenti mi trascinava per vicoli, storie, sensazioni, panorami. Tra le tante cose che avevo amato e stavo amando nella mia vita mancava soltanto lei.
Un’epifania di cui, personalmente, vado molto fiero.
“Mi sembra si stia più scomodi rispetto a prima”, mi dice.
Su questi scogli ci siamo dati il primo bacio e abbiamo fatto per la prima volta l’amore nella notte stellata di Partenope, con stelle curiose a guardarci. Proprio qui mi aveva comunicato di essere incinta. Ricordo che per l’incontenibile gioia scivolai e per poco non mi spaccai la testa.
Non rispondo ma ha ragione: prima si stava più comodi.
“Mi dispiace ma non riesco più a conviverci. E’ un dolore che non credo di riuscire ad affrontare, se restiamo insieme”.
Io ancora non parlo. Credo che in molte situazioni le parole servano a poco, mentre i silenzi possano tradursi in opinioni compatte e scoprirsi determinanti per un discorso coerente. Sono da sempre un acceso sostenitore di quello che io chiamo “silenzio consapevole”.
Ricordo ancora quella notte di febbraio in cui abbiamo perso tutto. Le sue urla che mi svegliano dal sonno, il sangue copiosa, la corsa inutile all’ospedale. Un’anima che, appena abbozzata e programmata, vola via senza nemmeno vedere un rivolo di luce.
La clamorosa e abbagliante dimostrazione che il mondo è pieno di ingiustizie, anche se l’essere umano fa di tutto per ignorarle.
Una botta durissima: i litigi furiosi, la subdola depressione, i troppi farmaci. Anni spocchiosi, impertinenti, che distruggevano le poche fulgide amenità presenti attorno a noi. In verità nessun aiuto è davvero concreto contro qualcosa che ti rassegni a non comprendere, o che non vuoi accettare. Ci si illude di poter controllare ogni aspetto di ciò che accade nella vita, quando in realtà siamo solo burattini nella mani di un destino spesso beffardo.
“E’ per questo che devo partire e allontanarmi da te. Ogni volta che ti guardo negli occhi vedo il viso della nostra bambina, lo immagino vividamente. I suoi lineamenti ricalcati suoi nostri. Vado via perché ho paura di odiarti quando invece ti amo più di ogni altra cosa”.
Una nave da crociera in lontananza si avvicina, presumibilmente attraccherà al Beverello. Una giovane donna sgrida la figlia per aver mangiato troppe caramelle. Un cane corre felice, senza guinzaglio, verso un padrone che a quanto odo non incontrava da tempo.
Ma credo sia arrivato il momento di smettere, e guardare ciò che devo.
Tolgo gli occhiali da sole.
E’ meravigliosa. Le accarezzo il volto. Chiude gli occhi, a momenti si assopisce sul palmo della mia mano.
“Abbiamo lottato, insieme. Non ho niente da perdonare. Sei quanto di meglio potessi desiderare per me stesso. Il mio cuore sarà tuo per sempre”.
Le do un bacio con tutta la passione che conosco. Per l’ultima volta.
“Vorrei poterti dire che c’è una causa. Che è colpa mia, o magari tua. La verità credo sia più semplice: se una cosa deve accadere, accade. Non voglio star qui a discutere su cos’altro potevamo fare. Ho solo bisogno di sapere che non mi dimenticherai”.
“Non lo farò, lo giuro”. Le credo.
In questo momento, l’orizzonte è più chiaro.
Se ne va quasi in lacrime. Mentirei se dicessi di non voler piangere anch’io. Mi conforta però il modus operandi di questo addio, la volontà di non cancellare gli errori, le bugie, le difficoltà così come l’assuefazione, le attese, le gioie vere. Credo che il segreto per affrontare i problemi sia proprio questo: cercare di capire che fanno parte di quello che siamo.
Lo Scirocco si alza e spazza via le poche nuvole che disturbano l’azzurro cielo. Questo ammasso di pietre è come un tatuaggio nella mia vita: l’inizio e la fine di un percorso che, inevitabilmente, ha cambiato ciò che sono e che sarò.
E mentre continuo a scrutare altre piccole vite, altre intriganti storie, altri impazienti amori, penso che forse ho sbagliato di nuovo: qui, in effetti, non si sta poi così scomodi.
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