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Cronache da Storie di Napoli: i 42.265 passi

 

Non so perché sto scrivendo questa storia e non so nemmeno perché mi trovo qui a narrarvela. Niente di speciale. Niente di fuori dal comune. Non parla di nessun luogo, di nessun posto, di nessuno che conosciate particolarmente bene. Non vi sentirete sollevati nel leggerla, né una volta letta inizierete a pensare a quanto questo racconto vi abbia cambiato la giornata o magari, esagerando, la vita.
O forse no? Quanto dista la felicità? Ci avete mai pensato?

Sebbene noi di Storie di Napoli siamo tutti diversi, abbiamo certamente due cose in comune: la curiosità e la pazzia. Quando poi queste si uniscono in un unico pomeriggio, il risultato non può che essere una giornata straordinaria. Ecco le Cronache da Storie di Napoli.
Dopo una buona mezz’ora passata ad aspettare ‘il fumettista’ ed un quarto d’ora di autocelebrazione per le sue tavole al PAN, iniziamo la nostra esplorazione sotto un caldissimo sole primaverile.

Era una calda mattina di aprile, molto calda, così calda che la metro di piazza Cavour aveva deciso di scioperare a mia insaputa costringendomi a percorrere Foria, Toledo e Chiaia fino a via dei Mille per raggiungere il PAN, Palazzo delle Arti di Napoli. L’impresa non era impossibile, anzi, molto fattibile se non fosse stato per un piccolo inconveniente: Federica era arrivata in anticipo. Ed io ero in ritardo. Non avrei potuto sopportare per un’intera giornata gli sfottò del mio ritardo e così, munito di una camminata che manco Usain Bolt, dribblai e scansai carrozzine, vecchiette, signore pittate e uomini chic.
Vorrei potervi dire di aver battuto i record mondiali. Vorrei potervi dire di esser riuscito a salvare capra e cavoli.
“Sei in ritardo!”
“Sei tu in anticipo! Mi sono fermato a firmare autografi!”
“Sei lo stesso in ritardo!”
Missione fallita. Entrammo al PAN, ingresso gratuito, secondo piano. Esposizione “’77 anno Cannibale”: una mostra sul fumetto ai tempi degli anni di piombo e di come tale mezzo di comunicazione fosse stato influenzato dagli avvenimenti di quel periodo. La gioia era che nell’esposizione erano presenti anche alcune mie tavole. Le trovammo. Le contemplammo. Ce ne andammo.

Prima tappa: la chiesa di San Carlo alle Mortelle. Dopo le temibili scale che incombono sulla piazzetta in cui si trova Louis Vuitton, le rampe Brancaccio senza un briciolo d’ombra ed altre salite ripidissime, una volta arrivati con fatica alla meta ad attenderci c’è l’ultima cosa in cui speriamo: una chiesa chiusa.

“E ora? Dove andiamo?” chiesi a Federica.
Scale!” disse lei, indicando una rampa che distava pochi metri dal PAN. La vidi con uno sguardo ed un sorriso che non avevo visto mai, un volto sorridente che ricordava quello di una bambina che con somma gioia riceve dopo tanto tempo un cono gelato. Felicità.
“Dai, sì!” le risposi. Non era lo sguardo di una bambina. Era sadismo.
Per tutta la giornata le scale non fecero altro che seguirci. Salimmo, salimmo, per una scalinata infinita ed una salita sconfinata sotto il sole cocente di un mezzogiorno dimenticato da Dio, fiduciosi di trovare aperta una leggendaria chiesa.
“Ah no, riscendiamo Alex! Chiusa!”
“Ah ok!”
“Aspetta Alex! Chiesa sbagliata! Quella aveva un nome strano! San qualcosa alle Mortadelle…
“San Carlo alle Mortelle!”
“Esatto!”

La facciata del palazzo che abbiamo visitato

“Sta scritto su quella via…”
“Sai cosa significa? Saliamoooo!
In quel momento pensai che i gironi dell’inferno forse sarebbero stati meno ripidi e più freddi, ma non ebbi il tempo di pensarlo che un’altra salita era lì, pronta a mettere a dura prova le mie ginocchia. Chiesa chiusa ed un vecchio palazzo nobiliare.
“Fede, entriamo!”
“Ma no, no! Immagina se entrassero nel tuo palazzo a spiarti dentro casa! Non ti darebbe fastidio? E poi potrebbero scambiarci per dei ladri!”
Due ladri di alto borgo, uno con una giacca elegante ridotta ad uno straccio sotto braccio e l’altra con uno zainetto a righe colorate munita di giaccone pesante. A venti gradi. Ad aprile.
Entrammo, uscimmo. Scendemmo.

Ma come spesso accade, ‘chiusa una porta si apre un portone’: senza una nuova destinazione precisa, iniziamo a percorrere tutti gli stretti vicoli dei dintorni orientandoci giusto con supposizioni sulla nostra posizione che si rivelano, puntualmente, sempre sbagliate.
Fra una stradina e l’altra incrociamo la chiesa di Sant’Anna di Palazzo: costruita nel XVII secolo, le sue mura assistettero al matrimonio di Eleonora Pimentel Fonseca ed al funerale del suo unico figlio, morto ancora in fasce e ivi sepolto.
Senza sapere come, ci ritroviamo a via Nardones; percorriamo una via Toledo affollata da turisti di ogni nazionalità che mangiano i più svariati cibi tipici della nostra città e ci rendiamo conto che essendo l’una e mezza potremmo (e dovremmo) pranzare. Da qui il dramma: cosa mangiare e dove andare?

La chiesa di Sant’Anna di Palazzo

Non c’era cosa più bella delle salite che diventavano discese, e non c’era cosa più bella dei marciapiedi dei Quartieri Spagnoli, quei bei marciapiedi in marmo, larghi, spessi che ti assicuravano una super protezione dagli autoveicoli che vi sostavano sopra. Fermi. Immobili.
“Tu hai fame?
“No, tu?” mi rispose.
“No, non ne ho”
“Non è vero perché se non l’avessi avuta non me lo avresti chiesto”
Non faceva una grinza il ragionamento, così ci dirigemmo verso una nuovo luogo di culto famoso in tutto il mondo che attira fedeli e fedelissimi, di cui per ragioni di pubblicità occulta non posso purtroppo fare il nome… in ogni caso si trattava di un luogo di ristoro. Una pizzeria in via Benedetto Croce. Di più non posso dirvi, mi dispiace.

La scelta è più o meno obbligata: una pizza margherita al centro storico. Attraversiamo Monteoliveto, piazza del Gesù e via Benedetto Croce per arrivare ad una pizzeria, convinti di poter gustare il nostro pranzo nel cortile della Federico II.
Ma, ahimé, anche questo piano va a monte: essendo sabato, l’università è chiusa.
Ci ritroviamo quindi a percorrere in tondo sempre gli stessi vicoli, alla ricerca di una panchina su cui sederci dopo tanto vagare. Quando ormai le nostre pizze si sono raffreddate, ci ricordiamo l’esistenza di un piccolo spazio verde in via Atri.

Dopo innumerevoli peripezie (dove ovviamente per “peripezie” intendo “scale e salite”) ed aver trovato chiuso il Chiostro di San Marcellino, decidemmo di consumare le nostre liete libagioni nei pressi di via Atri su una panchina dove tra un sorso d’acqua ed una margherita, una margherita ed un sorso d’acqua finimmo a parlare del futuro. Quel futuro un po’ incerto che spaventa tutti, quel futuro che forse per alcuni è già passato ma che per altri non è tanto distante. Alla fine, un po’ come le scale: probabilmente non arriverai alla cima, ma dietro puoi sempre lasciarti un bel pezzo di gradini che col tempo aumenteranno sempre di più, rimanendo con la certezza di essere vicino alla meta.

Riprese le forze, decidiamo di percorrere sino alla fine la stradina che ci ha dato un po’ di ristoro, la stessa attraversata da personaggi come Pontano, Sannazaro, Filangieri e Goethe, con una scommessa: mentre per me continuando a salire, verso la fine di vico San Gaudioso, c’è un ex monastero sulla sinistra, per Alex è sulla destra. Alla fine siamo entrambi sconfitti: quelli che ai nostri occhi sembravano essere luoghi appartenenti ad ordini religiosi, si rivelano in realtà sulla destra la continuazione della Chiesa di Santa Maria Coeli e, sulla sinistra, l’Ente Diocesi di Napoli.

Arrivati al piccolo spazio dietro il Policlinico della SUN, notiamo due facciate in decadenza: a giudicare dai buchi, ci sembra che da quella di destra siano state staccate delle lettere in metallo che indicavano cosa fosse quell’edificio. Gli unici simboli distinguibili, un po’ miseri per aiutarci a definire con certezza cosa sia quel palazzo, sono due piccoli stemmi con una forbice posti sulla costruzione di sinistra.

San Giovanni a Carbonara

Scendiamo la rampa che porta a Piazza Cavour e procediamo per via Foria in direzione dell’Orto Botanico con la speranza di trovare aperta la chiesa che abbiamo entrambi visto per portare, rispettivamente, il mio cane ed il suo gatto alla clinica veterinaria: quella di San Giovanni a Carbonara.

Riprendemmo la marcia visitando vie, monasteri vicino a veterinari, parlando di storie di conflitti tra chiese adiacenti, di luoghi sacri privati di effigi e tanto altro, archivi, ebrei, nazisti, cavalieri, donne, arme ed amori. O qualcosa di simile.

Simbolo esoterico dell’Occhio della Provvidenza in una delle cappelle di San Giovanni a Carbonara.

Finalmente, dopo molti cancelli chiusi, la Fortuna inizia a girare dalla nostra parte: dopo altre due rampe di scale per raggiungere l’ingresso, osserviamo con meraviglia un enorme complesso di cui siamo sicuri di aver scoperto poco o nulla rispetto ai suoi infiniti segreti. Ma questa è un’altra storia: per farvi capire quante ricerche dobbiamo ancora fare, osservate la foto qui accanto a sinistra. Riconoscete qualcosa?
Poiché il sole è ancora alto e le nostre gambe sembrano reggere qualche altro giro, confesso una delle mie peggiori mancanze: non ho mai visitato il cimitero delle Fontanelle.
E da lì, apriti cielo! Dopo tutte le prese in giro per il suo ritardo da ‘gran signore’, ora sono io a dover sopportare qualche battutina dal fumettista.


Sei mai stata al cimitero delle fontanelle?”
“No, ci vogliamo andare?”
“Ok, andiamoci ma ti avviso: io conosco una sola strada, quella da Materdei!”
“Meno male che eri autoctono…”
Entrammo nel mio quartiere, il Rione Sanità, e tutto mi sembrò così diverso. Non tanto per il clima, la gente, i venditori, i motorini o quant’altro… ma per lo spirito. Eravamo in una sorta di caccia al tesoro: la posta in palio la visita, la strada da percorrere, l’avventura, un inseguimento contro il tempo che in queste giornate di sole ognuno dovrebbe provare. Così, alle quattro e mezza del pomeriggio, eravamo lì, tanto per cambiare sotto il sole ardente, diretti verso la prossima meta: il cimitero delle fontanelle.

Ci incamminiamo per la Sanità e ci spingiamo dove nemmeno lui, pur abitando nel quartiere, era mai arrivato: oltrepassiamo piazza Sanità, ravvivata da quelli che non sono semplici disegni su muri ma vere e proprie opere d’arte, ed imbocchiamo una salita dietro l’altra. Come Pollicino seguiva le briciole di pane, noi seguiamo i magici cartelli marroni che ci guidano verso il cimitero.

“Secondo me o dobbiamo andare a destra o a sinistra!”
“A destra!”
“E come lo sai, Fede?”
“Telepatia… Ho i miraggi dei cartelli. Aspetta, te li condivido” disse indicando il classico cartello marrone di indicazioni.
“E come fai ad esserne tanto sicura?” risposi con sarcasmo per mettere in dubbio le sue certezze. Inutilmente. Perché una scia di turisti, un’orda gallica transalpina, ci si parò davanti lasciando amabilmente intuire che la rotta era giusta. Rotta per noi che avevamo fatto vela oltre gli arcani confini del Ponte della Sanità.

Quando ad un certo punto essi terminano, è l’interminabile flusso di una scolaresca francese, che come scopro origliando le loro conversazioni ha appena concluso la visita al cimitero, a portarci a destinazione. Anche stavolta abbiamo fortuna: con la chiusura fissata per le 17.00, oltrepassiamo le soglie dell’ossario alle 16.45. ‘Uaglioni, giusto una passeggiata veloce che fra un po’ tutti fuori’ ci ammonisce uno dei custodi. Ma a dire la verità, una sola occhiata mi basta per catturare l’essenza del luogo. Attraversiamo migliaia e migliaia di ‘capuzzelle’ ed Alex mi fa da Cicerone raccontandomi la famosissima leggenda del capitano.

Vorrei potervi dire di come in un quarto d’ora prima della chiusura ci trovammo a visitare il cimitero delle fontanelle senza essere cacciati, o di come fosse buono il caffè preso da Rescigno dopo un’infinita scarpinata. O magari del nostro lungo errare per Dante, i Tribunali, il chiuso museo Nitsch seguendo ed inseguendo una spossata Madonna dell’Arco pomeridiana e affacciandoci dai gradoni di maestose chiese in tufo quali San Paolo Maggiore… Ma non lo farò. Perché ogni cosa ha il suo tempo ed ogni giorno ha un tramonto che dà valore alle ore vissute, ai momenti trascorsi, alle risate e alle battute della vita.

Salita Pontecorvo per arrivare al museo Nitsch

Purtroppo il tempo è poco e, tornati ‘a valle’, la stanchezza inizia a farsi sentire. Per me che oltre alle mille scale sono anche reduce da una giornata di scuola, è l’ora del caffè.
Appena mi propone Rescigno, il mio compagno di viaggio rimane attonito dalla mia espressione stupita. Anche questa viene considerata una mancanza degna di sbeffeggiamenti: come faccio ad aver vissuto senza conoscere una fra le migliori pasticcerie di Napoli?
Dopo un pit-stop per ricarburare, giungiamo ad un bivio: terminare il nostro giro o passeggiare ancora un po’ finché il sole non abbandona completamente il cielo.
Com’è facile pensare, con sommo dispiacere dei miei piedi intrappolati in diversamente comode ballerine, è la seconda opzione a vincere. Risaliamo quindi via Foria e, giunti a Dante, un altro cartello marrone cattura la nostra attenzione. Su di esso c’è scritto ‘Museo Nitsch’; e cosa poteva indicare se non una direzione sopra altre due rampe di scale? Con il solito leitmotiv di scale infinite e porte chiuse, proseguiamo fino a San Paolo Maggiore a piazza San Gaetano. Davvero, è inutile raccontarvi quanti altri gradini abbiamo salito per scoprire di non poter visitare la chiesa poiché era in corso la celebrazione della messa.

“Quanto dista la felicità?”
Lei aveva fatto partire il contapassi.
Arrivai a casa, morente, con le vesciche ai piedi. Un messaggio.
“42.265 passi”

-Federica Russo e  Alex Amoresano

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