Bagnoli 1960, quando le case erano rosse di fumo
Bagnoli.
Un pontile lungo quasi un chilometro si protende verso il mare regalando ai passanti la possibilità di vedersi circondati da un paesaggio azzurro, in cui il confine tra acqua e cielo si confonde.
Il panorama è quello del golfo di Pozzuoli con Ischia e Capri ben visibili a ovest, ma ancora più vicina è Nisida, sembra quasi di poterla toccare.
Originariamente questa struttura aveva fini tutt’altro che turistici.
Nel 1962 la società siderurgica Italsider promosse la costruzione di un pontile che facilitasse l’arrivo delle materie prime nella sua fabbrica ubicata nel quartiere napoletano.
Trasportati su treni, ferro e carbone giungevano a destinazione, in quello che era uno dei più importanti complessi industriali nell’Italia del XX secolo. Inaugurato nel 1910, l’impianto aveva subito in un primo momento una forte crisi, dovuta ai debiti contratti a seguito della Prima Guerra Mondiale, ma negli anni ’60 la situazione si era completamente capovolta.
Il boom economico fece dell’Italsider la principale fonte di guadagno per i cittadini della zona. La maggior parte della popolazione era, infatti, occupata in quella fabbrica che, anno dopo anno, accresceva le sue dimensioni attraverso nuove costruzioni.
I guadagni erano floridi, l’acciaio prodotto veniva esportato in tutto il continente.
Eppure Bagnoli, forse perché accecata dal successo economico, non sembrava incredibilmente comprendere i danni ambientali che tale attività aziendale comportava.
Gli edifici per la produzione dell’acciaio si trovavano, infatti, in piena città. Il fumo nero delle ciminiere pareva quasi oscurare il cielo e la nube depositava sui muri delle case circostanti delle polveri che, arruginitesi col tempo, avevano colorato quegli edifici interamente di rosso.
Ma le conseguenze erano destinate ben presto a riversarsi anche sui cittadini.
Molti furono coloro che si ammalarono di tumore probabilmente proprio per l’emanazione di gas tossici e per la presenza di numerosi prodotti di rifiuto scaricati in mare e nel terreno. Ciò che sconvolse maggiormente fu la dirompente diffusione di queste malattie non solo tra gli operai, ma anche tra la gente che abitava nei dintorni e che non era mai entrata direttamente in contatto con i processi siderurgici.
Il cambiamento era ormai necessario.
Fu così che nel 1993 lo stabilimento venne chiuso definitivamente.
Molte furono le proteste: attraverso scioperi e atti di ribellione, gli ex-operai chiedevano disperatamente di riprendere la loro attività, dato che il tasso di disoccupazione del quartiere era arrivato a toccare il 42% della popolazione.
La situazione sembrava priva di una via d’uscita; lavorare in quel settore significava rischiare di morire, ma vivere era impossibile senza una fonte di guadagno.
La decisione ormai era stata presa.
Con il passare degli anni gran parte di quegli edifici fu abbattuta, i muri delle case vennero tinteggiati nuovamente e furono attuate operazioni di bonifica del territorio, seppur tutt’ora non concluse.
È ancora un grande interrogativo quali siano i progetti futuri a cui sono destinati questi luoghi, divenuti centro di accesi dibattiti tra posizioni contrastanti.
Attualmente di quegli anni d’oro restano in piedi alcune ciminiere, vari fabbricati ed il pontile che insieme costituiscono una spettacolare quanto inquietante archeologia industriale, testimonianza e ricordo, di un periodo di macchine e fumo, di denaro e malattia, di una ricchezza quanto mai contraddittoria.
Laura d’Avossa
Lascia un commento