A Napoli la morte non è mai morta.
È l’unica città dove la morte non è per sempre ma vive e sopravvive nelle cripte delle chiese, nelle catacombe abbandonate, negli ipogei. A Napoli non sono i vivi che parlano con i morti ma i morti che parlano coi vivi. La morte napoletana è una morte carnale anche se è tutta fatta di ossa.
La morte parla, vaticina, interpreta, ingiunge, consiglia, indirizza. La morte ha scale di valori, tant’è vero che i napoletani non si rivolgono alle anime del Paradiso ma a quelle del Purgatorio: “le anime pezzentelle“. E perché lo fanno? Lo fanno perché il Purgatorio è più vicino alla terra e dunque alla vita. Chi sta nel Purgatorio è morto di una morte ancora “umana” e umanizzabile. Ancora soffre, patisce, gioisce della vita che non può più vivere di persona ma per interposta persona.
Ed è per questo motivo che a Napoli la morte si chiama Pasquale. Come un vivo. Sembra ridicolo eppure non lo è.
Provate a scendere negli ipogei della Chiesa della Sanità – dove si scolavano i morti -, scendete nella cripta misteriosa della Chiesa dell’Arte della Seta a San Biagio dei Librai oppure scendete nelle catacombe del Miglio sacro, oppure andate a vedere la cripta di Santa Maria delle Anime del Purgatorio ai Tribunali e troverete una morte che vive nei suoi teschi sudati, nelle sue scarabattole funebri piene di devozione: “Maddalena Esposito per grazia ricevuta”.
Andate al Cimitero delle Fontanelle e vi accorgerete che la morte non fa paura e non può fare paura perché non produce terrore ma fede. Vi troverete la capa di donna Concetta che suda e non s’impolvera, quella del severo Capitano, la testa dei mori morti, quella dei fidanzati, troverete il corpo semi mummificato di una nobildonna morta per colpa di uno gnocco e non avrete timore di sporgere la mano per accarezzare una “capuzzella”, cioè un teschio. Anzi, fate una cosa, adottate pure voi una “capuzzella”. Fate bene ad un’anima abbandonata. Questa concezione di tipo quasi animistico è molto radicata nel substrato memoriale e tradizionale dei napoletani. E conduce ad una visione più disinvolta del distacco e più pratica della contemplazione dei ricordi. Non sempre ricordi di tipo parentale o famigliare ma sempre ricordi mortuari. I morti abbandonati, cioè dimenticati, a Napoli sono tantissimi. Pensate che alle Fontanelle riposano quarantamila persone. Eppure la devozione elegge una “capuzzella”, la salva dall’oblio e la fa rivivere.
Il ricordo dei morti vive e rivive nelle reliquie, respira nella teste prese in adozione ed accudite dalle pie donne. Vive la Morte. Il 2 novembre inizia il periodo di preparazione alla venuta di Dio. Cioè il periodo che anticipa i famosi “dodici giorni di Natale”. È strano che un evento di vita, come la nascita di Gesù Bambino, sia anticipato da un evento di morte. Ma proprio questo contrasto mostra l’anima nuda di Napoli. La parte luminosa e quella ombrosa della tradizione.
I morti escono dagli inferi e ritornano sulla terra, attendono la venuta del Cristo, si prostrano ad adorarlo e poi ridiscendono agli Inferi con la pasqua Epifania, cioè il 6 di gennaio.
Chi ha paura della morte è già morto. Come siamo morti noi che rinneghiamo un cimitero per preferire Halloween.
“Refrisco e sullievo ‘a tutte quante!”
Alessandro Basso
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