Tutti lo chiamavano “Pilone“, anche se all’anagrafe era chiamato Antonio Cozzolino. Era un uomo dalla stazza grossa, con barba e baffi enormi quanto le sue braccia muscolose . Amava le armi da fuoco, era religioso fino al fanatismo ed aveva un carattere che andava a metà fra il santone e il Fra Diavolo. Con una costante: la fedeltà al Re Borbone pari a quella di un pretoriano verso l’Imperatore.
Ecco un ritratto dell’ultimo brigante della Storia d’Italia.
Nei suoi 9 anni di latitanza fu protagonista di gesti sensazionali e battaglie epiche, atti di generosità verso i meno abbienti e avventure che sono entrate nei racconti e nei proverbi popolari, quasi come un Batman borbonico.
Passò una vita da ricercato numero uno che non poteva finire per vecchiaia. E infatti l’epilogo fu un dramma di sangue.
Nell’esercito per sfuggire al carcere
La vita di Pilone non sembrava destinata a grandi imprese. Nacque il 20 gennaio 1824 a Torre Annunziata, ma visse nella vicina Boscotrecase. Era analfabeta, la famiglia era di modesta estrazione, con il padre che lavorò per la costruzione dei binari della Napoli-Portici e passò una vita intera da scalpellino. Trovò lavoro anche per il figlio nello stesso settore, almeno finché Cozzolino non fu arrestato dalla polizia borbonica: fu infatti sorpreso con pistole ottenute illegalmente, rivelando la sua passione per le armi da fuoco.
L’unico modo per pulire tale macchia era arruolarsi nell’esercito, proprio come fece Fra Diavolo 50 anni prima. Cominciò così la carriera militare del Cacciatore a piedi di linea Antonio Cozzolino, che si distinse sia nella repressione dei moti repubblicani del 1848 che nelle rivolte siciliane di Messina, con la promozione a sergente.
In Sicilia
Era il 1860 e, dopo la morte di Ferdinando II, il Regno delle Due Sicilie finì al collasso.
Pilone era di stanza a Calatafimi nel giorno dello sbarco dei Mille di Garibaldi e fu qui che si distinse per un atto che gli valse una medaglia al valore, che ostentò fino alla morte: strappò la bandiera dei Mille dalle mani di un alfiere e la strappò.
La vita da brigante
Nel 1861, unificata l’Italia, Antonio Cozzolino tornò a fare mestamente il suo lavoro di scalpellino, rifiutandosi di entrare nell’Esercito Italiano e dedicandosi spesso in sgrammaticate arringhe a favore dei Borbone, che appassionavano il popolo di Boscoreale.
Il nuovo sindaco di Boscotrecase di certo non poteva accettare agitazioni politiche nel suo Comune e cominciò quindi a perseguitare l’ex militare: furono inviate continuamente squadre di polizia per perquisizioni nella sua modesta bottega, a scopo intimidatorio. Fu infine spiccato un mandato di cattura da parte della Guardia Nazionale, ma Pilone si ribellò a suo modo: uccise il comandante delle guardie che erano giunte a catturarlo e, in una rocambolesca fuga, si rifugiò nei boschi vesuviani, attraendo numerosi animi ribelli attorno a sé. Con un giuramento di vendetta, cominciò così la sua vita da capobanda brigante.
Pilone e il brigantaggio
Fu parte di quella resistenza lealista che si oppose al nuovo corso dello Stato italiano: furono chiamati “briganti” come banditi, per lo più erano ex militari borbonici rimasti fedeli al precedente sovrano che, in tutte le regioni del Sud Italia, portarono avanti attività di guerriglia contro il nuovo Stato che, nel 1863, decise di risolvere la situazione usando metodi brutali: fu emanata la famosissima “Legge Pica per la repressione del brigantaggio“, di fatto istituendo tribunali militari in tutte le province dell’ex Regno delle Due Sicilie.
Erano gli anni delle proteste dei lavoratori, come nel caso della fucilazione degli operai di Pietrarsa, e dei moti antiunitari che diedero numerosi grattacapi alla neonata Italia. Nonostante molti lo invocassero di nuovo nel Sud Italia a capo di una armata, Francesco II non decise mai di tornare nel suo ex regno.
Pilone fu anche in contatto con Carmine Crocco, il generale legittimista più famoso e influente dei moti post-unitari, ma le bande di briganti agirono sempre in modo individuale e senza una coordinazione collettiva: la fine delle ribellioni armate era solo una questione di tempo per lo Stato.
D’altronde, erano finiti i tempi della Santa Fede e del Cardinale Ruffo e la Sicilia, anziché ospitare il re Borbone, era diventata una terra ostile.
Rapimenti, scorribande e atti eroici
Le attività di guerriglia della sua banda cominciarono assaltando treni che trasportavano truppe piemontesi, saccheggiando diligenze militari e assaltando carceri per liberare gli ex militari borbonici. La sua presenza diventò il terrore dei ricchi e dei camorristi dell’area vesuviana: intercettava i traffici illegali di vino e uva sui Monti Lattari, rapiva i possidenti per chiedere riscatti. Arrivò addirittura a catturare il marchese Michele Avitabile, direttore del Banco di Napoli, per ottenere un riscatto corposo capace di finanziare la sua banda.
Arrivò addirittura ad occupare militarmente una città, Terzigno, diventando un eroe del popolo, e molti nobili di fede borbonica segretamente cominciarono ad appoggiarlo.
Ogni sua azione era preceduta da una preghiera o da un sermone, quasi come se si fosse sentito una sorta di guerriero di Dio. Lui stesso si sentiva “figlio della Madonna Addolorata” e con sé portava il santino di San Ciro, un reliquiario e altre immagini votive con dediche e pensieri scritti con una sua grafia sgrammaticata.
O cuore di Cesù quelle che è tico posso fatù (o cuore di Gesù, quello che dico, possa fare tu!)
Uno dei versi scritti da Pilone nel suo reliquiario personale che portava con sé
Francesco II, che guardava da Roma le sorti del suo regno, decise di invitare il brigante a Roma per insignirlo di un vuoto titolo nobiliare del Regno delle Due Sicilie.
Pilone, abituato a vivere fra i boschi, grotte e cantine di contadini compiacenti, si sentì improvvisamente come un re, emozionato di fronte alla figura del sovrano che aveva giurato di difendere senza nemmeno averlo mai visto in faccia. Fu rinviato a Napoli con il titolo di comandante dei cacciatori di osservazione. Era onoratissimo, anche se il titolo non valeva nulla.
Le cronache dell’epoca, dal 1861 al 1870, raccontano di decine di azioni di guerriglia svolte con efficacia quasi chirurgica. Nicola Amore, questore di Napoli e futuro sindaco della città, era preoccupatissimo per la propria reputazione, messa in gioco da un bandito
Il tradimento di Pilone
Era il 1870 e il Governo Italiano aveva dichiarato conclusa l’emergenza del brigantaggio. Tranne per un nome: quello di Pilone, a 46 anni, ancora non si arrendeva. Viveva nei boschi come una volpe, usciva con il favore delle tenebre, il popolo parlava di lui con toni a metà fra il Robin Hood e un supereroe.
Poi si presentò nella questura di Napoli un tale signor Gargiulo. Disse che sapeva dov’era il brigante Pilone, ma l’informazione era molto costosa. Nicola Amore gli promise 1500 lire (circa 8000 euro). Affare fatto.
Cozzolino fu invitato a Via Foria di primo mattino per discutere di un affare con il traditore, che doveva essere un uomo molto vicino alla sua banda per riuscire a convincerlo con una simile facilità. Ad accoglierlo, però, furono 5 poliziotti armati di coltelli e pistole: cominciò una rissa violentissima in cui incredibilmente un solo uomo riusciva a tener testa a 5 aggressori. Allora a dar manforte giunsero altri 10 militari che, in 15 contro 1, massacrarono il brigante, lasciandolo in una pozza di sangue mentre rantolava: “Mi ha tradito! Mi ha tradito!“.
Era il 14 ottobre 1870 e sui sampietrini di Via Foria si chiuse l’ultima pagina di una delle storie più controverse dell’Unità d’Italia.
-Federico Quagliuolo
Riferimenti:
Carlo Avvisati, Antonio Cozzolino ‘o brigante Pilone, Il Gazzettino Vesuviano, Pompei, 2011
Sito web del comune di Boscoreale
https://www.ilmediano.com/boscotrecase-luglio-1861-la-comica-storia-di-tre-agenti-segreti-infiltrati-nella-banda-del-brigante-pilone/