Lo troviamo ovunque. Dai menù delle paninoteche alle pizzerie, fino agli scaffali dei supermercati. L’etichetta maialino nero casertano è in tutti i piatti “gourmet” della Campania ed è un fatto bizzarro, se pensiamo che in realtà si tratta di un animale che esiste solo in pochi esemplari.
Il nostro maialino, infatti, si è salvato dall’estinzione per miracolo: nel 1995 erano presenti solo 25 animali, che furono salvati da un gruppo di agricoltori locali. Oggi sono circa 2000. Ben pochi per sfamare tutti i pub della Campania.
Cerchiamo quindi di essere precisi: il suino casertano è una delle più antiche razze in Italia e la più antica del meridione. Grazie alle sue carni molto saporite e grasse, era anche considerato come il più pregiato ed era venduto all’estero per migliorare gli allevamenti stranieri.
Era amatissimo dai Sanniti e poi dai Romani e lo troviamo addirittura sulle monete del I secolo a.C, mentre la prima testimonianza scritta della sua esistenza la troviamo nel I secolo d.C.
Non si esclude nemmeno che il cinghiale di Benevento, in realtà, possa essere legato al nostro maiale.
Maialino nero casertano? Non proprio
Il suo nome corretto è “Suino di razza casertana” e non è nemmeno nero, ma grigio. Nel XIX secolo era considerato la tipologia più pregiata di maiale italiano e il governo borbonico lo vendeva a caro prezzo agli allevatori stranieri per migliorare la qualità degli allevamenti d’oltralpe.
Ha anche un’altra particolarità: non si tratta di una “razza”, ma di una specie autoctona, ovvero un animale nato e vissuto proprio in Campania sin dalla notte dei tempi. Si riconosce anche per un carattere molto mite e amichevole, per essere particolarmente grasso, basso e dalle zampe corte e per il particolare attaccamento delle scrofe ai loro figli.
Sono soprannominati anche “pelatelli” perché di fatto sono nudi, con poca peluria sul collo e dietro le orecchie.
Anche la loro crescita in cattività avviene con un procedimento molto rigoroso: vivono per due anni nei boschi o comunque in spazi ampi e liberi, dove possono vivere in tranquillità, che si confà particolarmente al loro carattere mite grazie al muso lungo riescono a procurarsi ghiande, castagne ed altri prodotti della terra, senza ricorrere a mangimi e integratori. Questa dieta particolarissima rende la carne del suino casertano ricchissima di grassi polinsaturi, “responsabili” del colesterolo buono, addirittura in misura maggiore di quelli saturi.
Tutta la procedura di allevamento è rigorosamente disciplinata dall’ANAS, che non è ovviamente quella delle autostrade, ma l’Associazione Nazionale Allevatori Suini, che ha realizzato un’anagrafe suina e un complesso regolamento per garantire l’allevamento degli animali a scopo alimentare senza comprometterne mai il benessere nell’arco della loro breve e illusoria vita. Anche l’uccisione degli stessi dev’essere effettuata nel modo meno doloroso possibile, evitando ogni inutile sofferenza.
Un compagno antico, una fine sventata
Torniamo però indietro in tempi in cui le industrie nemmeno esistevano e i maiali vivevano per davvero allo stato brado. Il popolo contadino della Campania alleva il “maialino nero casertano” dalla notte dei tempi, come fu scoperto nel 1899 dal professor Baldassarre del Regio Istituto Superiore per l’Agricoltura di Portici: a suo avviso, infatti, i suini raffigurati negli scavi archeologici di Capua, Pompei ed Ercolano erano proprio i nostri casertani.
Non si è mai trattata di certo di una relazione di amicizia, ma di convenienza, dove a farne le spese è sempre stata la pelle del povero suino: in tutte le famiglie dei paesi dell’entroterra campano era infatti presente almeno un maiale, che si nutriva di avanzi e degli abbondanti frutti presenti nell’agro casertano e nei boschi della zona sannita. Poi, come da tradizione rurale, nei mesi di gennaio e febbraio c’era la tradizionale festa per l’uccisione del maiale in cui l’intera famiglia si radunava per scuoiare il suino messo all’ingrasso e ricavare cibo per l’intera stagione invernale. Si tratta di un rito che in Calabria è ancora sentito in modo profondissimo, mentre in Campania resiste solo in alcuni paesi dell’entroterra.
Sappiamo con certezza che il “maialino nero casertano” prosperò fino alla II Guerra Mondiale quando, fra fame, razzie e mercati neri, vide la sua specie decimata. Non ci fu gratitudine per il suo supporto alla salvezza umana nemmeno dopo il conflitto: furono introdotte in Italia numerosissime razze americane e nordeuropee da poter crescere in gabbie e allevamenti intensivi, sicuramente molto più redditizie per gli allevatori, ma atroci e inumane per gli animali. E allora, di fronte al denaro, il suino casertano lentamente si fece da parte fino a raggiungere il suo minimo storico nel 1995, quando era pressoché estinto.
E allora perché si legge “maialino nero casertano” ovunque?
Il marketing è sempre la risposta. Nei casi migliori – spiegano gli esperti- si tratta di incroci con altri maiali, nei casi peggiori si tratta di “ordinari” maiali bianchi che, in nome del dio denaro, nemmeno conservano sull’etichetta la dignità della propria specie.
La salvezza e il ritorno in auge dell’etichetta “maialino nero casertano” è giunta in tempi recentissimi grazie all’incessante attività di promozione svolta dagli allevatori: nel 1995, quando rimanevano solo 25 animali in vita, cominciò una attenta campagna di recupero della specie. D’altronde, bastava affermare una cosa già conosciuta 2 secoli prima. E così, offrendo salumi, preparati e altre prelibatezze alle fiere nazionali e internazionali, è aumentato l’interesse di tutti i cultori dello slow food tradizionale. La moda dei “panini gourmet” post-2010 ha poi fatto il resto, aumentando la domanda a dismisura (e con quest’ultima sono aumentati anche i truffatori in misura ancor maggiore).
Strano e perverso è il destino di questo suino che sembrava destinato a non vedere il III millennio: la vita dell’intera del famoso “maialino nero casertano” è stata preservata, paradossalmente, mostrando le qualità assunte dopo la morte.
-Federico Quagliuolo
Fotografie di Yuri Buono
Fotografia di copertina di Stefano D’Amico
Per approfondire, un eccellente articolo di Marco Contursi sul blog di Luciano Pignataro
Riferimenti:
Regione Campania
Rivista Agraria
La contrada del nero