C’era un tempo in cui il mondo digitale era cosa per pochi pionieri. Gli anni ’80 e ’90 erano infatti tempi di adolescenti appassionati e scopritori di quell’informatica che, di lì a poco, avrebbe rivoluzionato le nostre vite. Proprio in quei tempi si diffuse il mito delle “cassette napoletane“, chiamate in senso dispregiativo da un lato per il solito binomio “Napoli-illegalità“, dall’altro perché negli anni ’80 Napoli fu per davvero uno dei maggiori centri di produzione dei videogiochi piratati, con tanto di finte società che si contendevano il titolo di “pezzotto più originale”.
In realtà il fenomeno delle “cassette da edicola” fu noto in tutta Italia: si vendevano infatti nelle edicole di tutto il Bel Paese alcune riviste con i videogiochi a prezzo stracciato, con Milano che ne era la capitale editoriale.
Tutto questo era legale? Assolutamente no. Ma non c’erano sanzioni.
Fino al 1992 non esisteva in Italia una legislazione precisa sul sofware pirata: con poche e accorte modifiche al codice sorgente del videogioco era infatti ben facile poter rivendere programmi piratati in maniera del tutto legale.
Proprio in quest’ambiente a 8 bit fatto di entusiasmi per un processore a 60Mhz, delirio per l’interfaccia grafica del primo Macintosh e decine di rumorosissimi floppy disk per installare un programma, nacque una fiorentissima industria della “copia d’autore” che popolava tutte le edicole d’Italia.
Il fenomeno delle cassette da edicola: agli albori della storia del Computer
Per i nativi digitali e per chi non ha conosciuto il mondo dell’informatica ai suoi albori è davvero difficile riuscire ad immergersi nel clima che caratterizzò quell’epoca dell’informatica che un giorno studieremo come la madre del mondo moderno. La pirateria digitale oggi è associata ai “programmi craccati“, spesso infarciti di virus.
Negli anni ’80 il Commodore 64 era un sistema rivoluzionario che portò per la prima volta il digitale nelle case di tutto il mondo, ma non era di certo un oggetto comune come una Playstation o come uno smartphone. Basta vedere il prezzo: nel 1984, anno di lancio, costava infatti 737mila lire, l’equivalente di 1100 euro attuali. Per utilizzare i dischetti bisognava comprare altro hardware: il lettore di cassette per 141mila lire o il lettore floppy per 743mila lire. Praticamente per avere un sistema completo si arrivava a spendere l’equivalente di circa 3000 euro.
Anche la cultura digitale era ben diversa da quella attuale: fino alla fine degli anni ’90 nessuno immaginava le potenzialità reali di un sistema digitale e i videogiochi erano davvero apprezzati solo da pochi appassionati radunati attorno a riviste di settore, essendo Internet ancora lontano. D’altronde, ancora oggi l’arte del videogame è spesso derubricata a “giochini“ e le opportunità create dal mondo informatico sono state assaggiate da molti solo dopo il lockdown del 2020.
Si trattava di giochi di software house straniere che venivano ripresi e tradotti in italiano da giovani appassionati di informatica, poi rivenduti come allegati di riviste amatoriali in edicola, spesso spacciandosi per autori dei software. Erano di estrema diffusione a causa della facile reperibilità delle cassette e dei floppy disk, mentre invece era ben più complesso (ma non impossibile) reperire le cartucce delle console da gioco come il Sega Mastersystem.
Così troviamo “Monorotaia“, famoso in tutto il mondo come “Suicide Express” o “Caduta Massi” al posto di “Boulder Dash”, “Congo Bongo” in “Africa Nera“. Tutto faceva brodo e soldi: gli sviluppatori vendevano per 10.000 lire i videogiochi piratati, le riviste di settore vendevano decine di abbonamenti. Tutti contenti tranne gli autori originali, che nemmeno potevano difendersi in tribunale.
Il fenomeno fu contrastato solo grazie ad una direttiva europea che impose a tutti gli Stati di adottare norme di pirateria entro il 31 dicembre 1992.
Le cassette napoletane: un’industria fra la fantasia e l’illegalità
Alga Software, FSN (Federation Software & Hardware Diffusion Center of Naples!!), Winner Games, Wow! Games e tantissimi altri nomi che, leggendoli oggi, sembrano case di produzione straniere di chissà quale successo. In realtà erano dei nomi d’arte di pirati o finte società nate da gruppetti di giovani, dai 20 ai 35 anni, che cominciarono a rivendere i propri videogiochi.
A Napoli scoppiò verso la metà degli anni ’80 una vera e propria guerra fra i “falsi originali”. Se infatti le prime cassette vendute in Italia erano videogiochi stranieri modificati nei nomi e nelle grafiche, ciò che contraddistingueva le cassette napoletane era la loro “originalità”: si trattava di videogiochi originali in tutto e per tutto, ma “marchiati” dal pirata e migliorati.
L’abilità degli sviluppatori amatoriali napoletani era davvero straordinaria: non si limitavano a ricaricare i giochi originali, ma sviluppavano anche le “patch” per risolvere problemi del software originale. D’altronde, se oggi su Playstation ci irritiamo se gli aggiornamenti ritardano di mezz’ora, all’epoca era impossibile correggere un errore di programmazione, che magari rendeva un livello troppo arduo da superare.
All’interno di alcune “cassette napoletane”, inizialmente per Commodore ma poi anche per altri sistemi, dallo Spectrum al Sega Mastersystem, c’erano anche delle recensioni e dei volumetti con la guida per risolvere i giochi e addirittura dei trucchi da attivare per superare i livelli più ostici. Non per ultimo, in una singola cassetta o floppy era presente un numero di videogiochi enorme.
Cosa ancora più conveniente: costavano 10.000 lire (una decina di euro attuali), quando i software originali potevano arrivare anche a 10 volte tanto.
Una gara al pezzotto migliore
Fra le tantissime riviste che rivendevano software “piratato legalmente”, c’era addirittura una che non tradiva nemmeno l’intento degli autori: si chiamava “Pirata” e si vendeva nelle varie edicole di tutta la Campania. La sede era a Piazza Monteoliveto e i suoi collaboratori pubblicavano firmandosi con nome e cognome. C’era oltretutto una vera e propria corsa alla rivendicazione sulla qualità dei prodotti: ogni società di pirati aveva il suo logo e si vantava dei propri software realizzati “meglio di altri”. Diventò famosissimo fra gli appassionati degli anni ’80 la schermata di “Alga Software” con la bandiera italiana e pure il numero di telefono del pirata: non c’era paura nel comunicare i propri dati sulle cassette napoletane, in quanto si trattava di comunità di appassionati abbastanza ristrette in cui, dopotutto, non c’era alcuna sanzione per ciò che si faceva. FSN, invece, utilizzava l’immagine in 8 bit di una cella del carcere con su scritto “SOFT/HARD NAPLES – THE BEST GAMES”.
Di.Effe Games, invece, nell’edizione del 1987 dei suoi videogiochi, cominciò a colorare di azzurro le sue schermate per omaggiare lo storico scudetto del Napoli.
La fine di un’epoca della pirateria digitale
Dopo la stretta del 1992, le software houses napoletane sparirono rapidamente e dalle edicole svanirono i floppy pezzotti, Nel frattempo, negli stessi anni il mondo del videogioco stava per subire la più grande evoluzione mai vista prima: il Game Boy aveva appena fatto capolino sui mercati mondiali e tutte le console della Sega, protagoniste degli anni ’80 e ’90, stavano per cedere lo scettro al CD-ROM e alla leggendaria prima Playstation.
Poi arrivarono come una pioggia Internet nelle case di tutti, i computer sempre più potenti e sbucò timidamente anche il cellulare.
La pirateria dei videogiochi non sparì dopo quel 1992. Anzi, si professionalizzò e passò nelle mani della criminalità organizzata, serpeggiando fra le bancarelle, le vendite “sotto banco” e gli “amici di amici” che si rifornivano da oscuri centri di masterizzazione che la polizia scovava con difficoltà in capannoni della provincia. Poi il fenomeno si è abbrutito ulteriormente di anno in anno, passando oggi in mano a gruppi di cracker e pirati sconosciuti, che distribuiscono online i videogiochi e i programmi, spesso “arricchendoli” con virus per rubare informazioni sensibili, usare il PC per mining o altre amenità.
Quei giovani pirati degli anni ’80 oggi sono più che sistemati, un po’ come il sessantottino entrato in banca: alcuni sono rimasti (legalmente) nel mondo dell’informatica; altri, non investendo su quella che un tempo era una passione ben remunerativa, hanno intrapreso carriere più ordinarie, diventando stimatissimi dipendenti in grandi aziende o nel settore pubblico. Altri ancora, come il famoso “Mixed by Erry” famoso nel mondo della musica pirata, sono finiti in carcere, segnando la fine di un’epoca sregolata, selvaggia e pioneristica, tipica di tutti i momenti storici in cui si scoprono di mondi nuovi e inesplorati.
-Federico Quagliuolo
Riferimenti:
https://www.edicola8bit.com/pagina_dinamica.php?codice=informazioni_cassette_pirateria
http://infogiochi.altervista.org/napoletane.htm
http://infogiochi.altervista.org/prezzi121984.htm
http://massicadenti.altervista.org/algasoft.html
https://www.youtube.com/watch?v=BdlmDvYsZjs&ab_channel=KenobisbochProductions
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