Uno degli argomenti più controversi del Risorgimento Italiano è caratterizzato dalla Legge Pica per la repressione del brigantaggio.
Fu legalizzata per tre anni la fucilazione senza processo di briganti, ribelli e altre “categorie a rischio” e i tribunali civili furono sostituiti da quelli militari per diverse categorie di potenziali criminali. Fu insomma una sospensione totale dei diritti civili di tutte le ex province dell’ex regno delle Due Sicilie in nome dell’Unità Nazionale.
La legge costò migliaia di vite, senz’altro con innocenti vittime in nome della stabilizzazione del Sud Italia.
Per i borbonici come Giacinto de’ Sivo fu un genocidio legalizzato per sterminare i meridionali; per i filounitari fu un male necessario per porre un freno al fenomeno delle rivolte politiche, che rischiavano di far cadere il fragile Stato italiano. Per i moderati, invece, la crudeltà era evitabile con provvedimenti più ragionati, capaci di stimolare l’occupazione e l’iniziativa economica al Sud.
Ad ognuno la sua risposta.
Un territorio che scoppia
Dopo il 1860 in tutto il Sud Italia c’era la più grande confusione politica, economica e civile: erano passati solo pochi mesi dalla scena pittoresca del popolo napoletano che accoglieva Garibaldi a Via Toledo fra feste e le bandiere. Poi, finita l’Unità, tutti si accorsero che le proprie vite non erano cambiate. Anzi, i nuovi amministratori della città, in nome di un’Italia unita che poco interessava al popolo, imposero nuove tasse e si trovarono con l’ingombrante eredità di Liborio Romano, con la Guardia Cittadina formata da ex camorristi che portavano avanti ogni sorta di prepotenza in tutta Napoli e provincia. Finito l’entusiasmo, iniziarono subito i malcontenti. Soprattutto nelle province agricole.
Cominciò così una serie di tentativi di riconquista del Regno, dall’impresa disperata di José Borjes al temibile Carmine Crocco arrivando fino all’irriducibile Pilone, l’ultimo dei briganti. Tutti erano mossi dall’odio verso gli occupanti: alcuni erano ex militari borbonici, altri erano invece semplicemente uomini del popolo che manifestavano il malcontento per il nuovo governo con le armi.
D’altronde, il collasso del regno più popoloso e attrezzato d’Italia, che nemmeno Cavour inizialmente immaginava possibile, inevitabilmente non poteva lasciare un’eredità pacifica. Proprio Liborio Romano, uno dei protagonisti più controversi dell’Unità d’Italia, scrisse nelle sue memorie che era tutta colpa della piemontesizzazione del Sud Italia (ovvero l’annessione del Regno imponendo le consuetudini e le regole piemontesi, senza cercare prima un’armonia legale ed economica). D’altronde, il popolo meridionale più ignorante si era improvvisamente trasformato nella provincia di una capitale lontana quasi 1000km senza nemmeno capirci tanto bene cosa fosse accaduto.
Il brigantaggio diventò quindi un fenomeno politico che non faceva dormire il parlamento di Torino.
In questo clima di emergenza non mancava l’opinione pubblica, specialmente settentrionale, che era spaventata dalla narrazione fatta dei briganti dai giornali dell’epoca, raccontati come delinquenti senza scrupoli che, dopo l’Unità, erano ormai liberi di muoversi in tutta Italia per compiere furti, rapine e omicidi.
In realtà il fenomeno era ben più complesso.
Come la Storia insegna, la violenza è sempre stata la soluzione più semplice e gradita da chi si sente dalla parte dei “giusti”. E Legge Pica fu.
La Legge Pica, una soluzione estrema
Il deputato abruzzese Giuseppe Pica, nel 1863, presentò la soluzione in una seduta estiva del parlamento. Ad avviso suo e della destra storica, il brigantaggio era da considerare alla stregua di un’azione di guerra e doveva essere eliminato da uno Stato che mostra i muscoli. In questo modo anche l’opinione pubblica sarebbe stata confortata dalla visione dei militari italiani a caccia di briganti. Per giunta, essendo un’operazione di natura militare, il servizio di informazione non era libero: tutto ciò che all’epoca era conoscibile delle attività di guerra al brigantaggio era legato a comunicati rilasciati dallo Stato Maggiore.
Anche il napoletano Silvio Spaventa chiedeva la repressione armata. Nel 1860 condusse una guerra spietata alla camorra napoletana: a suo avviso l’unico modo per distruggere la camorra era l’uso dell’esercito, con fucilazioni sul posto e senza alcun processo per i delinquenti. D’altronde, prima di allora, i legislatori piemontesi nemmeno potevano immaginare l’esistenza della parola “camorra”.
Una voce contraria fu quella del ministro dei lavori pubblici Luigi Federico Menabrea: nella discussione parlamentare propose di stanziare 20 milioni di lire (circa 100 milioni di euro, un bello shock economico!) per realizzare strade, ferrovie e altre infrastrutture impiegando esclusivamente manodopera meridionale, convinto che il brigantaggio sarebbe svanito davanti al volto amico dello Stato. Le finanze del Regno non potevano permettersi queste spese. E allora guerra fu.
La legge n. 1409 del 15 agosto 1863 fu approvata con 207 voti a favore e 33 contrari. Inizialmente doveva durare solo 12 mesi, ma fu prorogata per ben 3 anni.
Le disposizioni della Legge Pica: una dichiarazione di guerra
- Furono definiti “briganti” tutti i soggetti che si trovavano nelle “provincie infette” (tutti gli ex territori delle Due Sicilie tranne la Puglia) e che componevano gruppi di almeno tre persone armate o disarmate.
Le punizioni erano severissime: la fucilazione per chi opponeva resistenza, i lavori forzati a vita per chi non si fosse opposto. Per i costituiti volontariamente, la punizione era del massimo edittale dei lavori forzati.
Interessante poi è l’articolo 5 della legge, che lascia una larghissima discrezionalità del Governo nell’assegnare il domicilio coatto agli oziosi, ai vagabondi, alle persone sospette, ai camorristi ed ai loro favoreggiatori: per la prima volta si fa menzione dei camorristi in un testo di legge italiano, identificandoli come una formazione sociale pericolosa.
Per queste categorie di persone “a rischio”, i tribunali civili nelle regioni indicate dalla legge erano temporaneamente sospesi in favore dei tribunali militari (con il relativo codice che prevedeva, appunto, la pena di morte), cancellando con un colpo tutte le garanzie costituzionali. La legge Pica destò tantissime discussioni fra i giuristi dell’epoca: la brutalità e discrezionalità delle disposizioni che ricordava più quelle di uno Stato assolutista che quelle di una monarchia costituzionale, era inammissibile.
Non si poteva ancora parlare di diritti umani violati perché non erano stati ancora codificati, ma i principi del Diritto di fine ‘800 erano già abbastanza avanzati per considerare un’aberrazione il contenuto della norma.
Le milizie volontarie
Un altro elemento interessantissimo è l’articolo 7. Parla infatti della possibilità di realizzare delle compagnie di volontari a piedi o a cavallo, armati e con divise. Tutto a spese dello Stato.
Questa disposizione, che poi fu ripresa ottant’anni dopo dalle Milizie Volontarie per la Sicurezza Nazionale durante i tempi del fascismo, legittimò la creazione di veri e propri mini-eserciti di persone armate in modo rudimentale, tutti alla dipendenza dei “Consigli Inquisitori”, che erano formati dal Prefetto, il Presidente del Tribunale, il Procuratore e due cittadini della Deputazione provinciale.
Liste di proscrizione
Altro compito della Commissione era anche la redazione di liste di potenziali briganti che, di per sé, consideravano già fondamento d’accusa: gli indiziati (o meglio: gli accusati!) potevano essere arrestati solo sulla base di quel foglio di carta e, in caso di resistenza, anche uccisi.
Questo fu uno dei punti più controversi della legge Pica, perché di fatto legittimò le vendette private: chiunque nella commissione poteva inserire dei nomi per ragioni personali. Dimostrare di essere innocenti, per gli arrestati, era difficilissimo.
Il bilancio della lotta al brigantaggio
La certezza è che la Legge Pica non risolse il problema. Anzi, inasprì le ostilità delle province ribelli e dei capi briganti. Furono arrestati poco più di 14.000 briganti, le condanne a morte si aggiravano intorno al migliaio.
Il brigantaggio di matrice politica era però un fenomeno destinato a sparire, volente o nolente: come dimostra l’impresa fallita di José Borjes, i capi dei vari gruppi ribelli, che spesso erano ex militari borbonici, erano in conflitto fra loro. Non si riuscì mai a creare una rete di resistenza perché, come al solito, l’individualismo tipico del Sud Italia fu un muro invalicabile e nessuno voleva cedere il comando all’altro, così come è sempre rimasta ambigua la posizione del re in esilio, Francesco II. Maria Sofia, invece, fu sempre vicina agli ambienti ribelli fino alla fine dei suoi giorni.
Il popolo delle campagne era rimasto fedele ai Borbone anche perché fu indispettito dalle nuove tasse imposte da Torino, necessarie per risanare le casse di Stato, e impaurito dalle incursioni dei militari a caccia dei briganti, mentre il popolo borghese delle città aveva già giurato, con convinzione, fedeltà al nuovo regime. La situazione della Sicilia era un capitolo a sé, in quanto l’isola era da tempo un territorio ostile ai Borbone, sin dal giorno dell’unificazione dei due regni da parte di Ferdinando I.
Alla fine, con l’arresto di Pilone nel 1871, il brigantaggio politico simbolicamente ebbe l’ultima sconfitta. Tutti i capibanda erano morti, Roma era diventata la nuova capitale d’Italia e lo Stato cominciò la sua lunga strada di eventi e storie che ci ha portato fino al giorno d’oggi. La legge Pica, però, aveva lasciato una cicatrice vistosa nella costruzione dei difficili rapporti fra la popolazione meridionale e il nuovo Regno d’Italia. Ancora oggi è una storia sulla quale riflettere e discutere.
La ribellione politica era però tutt’altro che finita: mentre moriva il brigantaggio borbonico di provincia, a Napoli si diffondeva a macchia d’olio l’ideologia dell’anarchismo. E non è un caso se proprio alle spalle della Stazione ci fu il primo tentativo di regicidio contro Umberto I di Savoia.
-Federico Quagliuolo
Riferimenti:
Giuseppe Galasso, Napoli, Laterza, Bari, 1987
Francesco Barbagallo, Storia della Camorra, Laterza, Bari, 2013
Carmine Pinto, La guerra per il Mezzogiorno, Laterza, Bari, 2019
Senato della Repubblica, lavori per il disegno di legge per la repressione del brigantaggio
Testo di legge sulla Legge Pica
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