Abele De Blasio li chiamava “i mercanti di carne umana” ed erano (e sono ancora) quei personaggi che, con artifici o con violenza, portavano alla prostituzione ragazze e ragazzi minorenni. Le giovani erano divise in “pollanche“, “gallinelle” e “voccole“, a seconda del loro grado di maturità, ed erano delle povere e ingenue ragazze rapite nei loro paesini delle campagne avellinesi, salernitane e casertane.
I rapporti fra la prostituzione e la camorra cominciano in tempi antichissimi, nel XIX secolo, e nei secoli passati questi loschi giri erano gestiti in modalità sempre molto simili, anche se non c’era una organizzazione criminale alle spalle.
Donne che rapivano le ragazze
Poiché la maggior parte dei lenoni era nota alla polizia, spesso ci si avvaleva delle “mezzane”, donne addette alla selezione del materiale umano da sottoporre al lenone.
Queste prostitute erano prelevate dai paesini di tutta la Campania dalle comare, signore che, fingendo di andare nei paesi a vendere verdure, adocchiavano le ragazzine più giovani e belle e studiavano strategie per rapirle.
Il ratto di queste ragazze si realizzava spesso in giorni di lavoro, raramente si utilizzava la forza: le comare, abilissime nel circuire le ragazzine di paese, con l’arte riuscivano a convincerle a scappare di casa o, portate in luoghi isolati, le portavano via. Sfruttando l’animo semplice dei contadini, era raro che le mezzane usassero la violenza.
Le ragazze da rapire si distinguevano in tre categorie con diverse fasce di prezzo: una “pollanca” (vergine, bella e giovane) avrebbe fruttato 10 lire alle comari, una “gallinella” (giovane e non vergine) 7 lire ed una “voccola” (donna che ha già partorito) solo 5 lire.
De Blasio riporta una lettera di una di queste comari inviata alla sua mezzana: “Cara D. Carolina, mi trovo a Salerno ed ho pronta una bella pollanga rossolella, che ancora non ha fatto l’uovo. Fatevi trovare alla stazione lunedì, col treno che arriva dopo mezzogiorno, perché ve la consegnerò. Vostra serva, Antonella”.
Una nuova vita a Napoli, fra prostituzione e la camorra
All’arrivo alla stazione, le mezzane aspettavano queste ragazzine, future disperate, con grande trepidazione: al loro arrivano le baciavano e le abbracciavano come il parente più atteso e, davanti alle loro lacrime, esclamavano “questa signora vi vorrà più bene di vostra madre!”.
Di lì, la ragazzina era portata nella sua prigione, finché non sarebbe stata uccisa o gettata in strada una volta diventata vecchia ed ormai non più profittevole per il camorrista-lenone che gestisce la casa chiusa: la mezzana la faceva spogliare e, dopo una breve visita, veniva immediatamente avvertito il pappone che, assieme alla mezzana, cominciava a pubblicizzare il nuovo arrivo per prenotare le serate di piacere con lei.
Spesso, quando la ragazza perdeva la verginità, riferisce invece Mantegazza nel libro “Gli amori degli uomini”, si utilizzavano numerosi (e dolorosi) artifici per fingere la ricostruzione dell’imene e vendere la prestazione a maggior prezzo.
Napoletane, cafone e forestiere
Abele De Blasio effettua una ulteriore divisione delle prostitute, fatta dalla Camorra nelle case di piacere: napoletane, cafone e forestiere.
Le napoletane si dividevano fra quelle “migliori”, le più belle che appartenevano alle case chiuse di Toledo, Chiaia e Vomero, e quelle “peggiori”, che invece di notte aspettavano i propri clienti in zona Ferrovia, Porto e Vicaria.
Le cafone invece erano le ragazze che vengono dalla provincia di Napoli e popolavano i casini della Napoli più povera e rozza, nelle zone del Centro, del Mercato, della Ferrovia e del Porto. Veniva loro affibbiato un nome d’arte dalle compagne (spesso il soprannome indicava la loro provenienza) ed immediatamente cominciavano a lavorare.
Quando si distinguevano per particolare abilità nel proprio mestiere, allora erano “promosse” ed acquistate nelle case chiuse di Chiaia e lì cambiavano nome: da Vincenza, Rosina e Carmela diventavano Beatrice, Bianca e Fanny.
Si riferisce di una tal Donna Rosaria che gestiva l’intero traffico delle “paesanelle”, di cui si conosce molto poco, nonostante sia citata come “ben nota” anche da De Blasio.
Chiaramente era impossibile fuggire in autonomia da questo mondo infernale del piacere: le donne fuggitive erano praticamente condannate a morte, in quanto era impossibile non essere individuati dalla fittissima rete di conoscenze dell’Onorata Società. Nel migliore dei casi riuscivano a fuggire via da Napoli, ma erano abbandonate, senza un soldo e trattate come mostri per essere “donne di malaffare” o quantomeno stranamente libere. Se fortunate riuscivano a finire in convento, altrimenti morivano di stenti.
Tra “zoccole” e bambinaie
Le prostitute dei locali più alti rimanevano poco tempo, data la continua affluenza di ragazze sempre più giovani ed illibate, mentre quelle dei postriboli più bassi, con il consenso del camorrista-lenone, si dividevano le zone in cui adescavano i propri clienti e rimanevano lì per anni, tanto da essere chiamate in anzianità “zoccole” perché condividevano con i topi l’attività sessuale e, tristemente, la vita negli stessi vicoli sporchi.
Altre volte, invece, riuscivano a stringere rapporti d’amore con qualche frequentatore o qualche camorrista, del quale diventavano fidanzate. E lì era l’unica strada di fuga dall’inferno in cui erano finite le ragazzine.
Una volta “usate”, se non morivano di malattia o per violenza del rasoio di qualche camorrista ingelosito, finivano la loro vita in miseria nei bassi del Porto, spesso facendo le bambinaie o le locandiere.
De Blasio riferisce un episodio di Virginia P., avvenuto nel 1896: fu adocchiata da un pregiudicato (tale “naso ‘nglese”) che, con la scusa di doverle presentare una parente che aveva bisogno di una bambinaia, la portò invece in una casa chiusa a Largo Baracche, nella quale fu letteralmente imprigionata per tre giorni e sottoposta ad ogni tipo di sevizia sessuale da parte del delinquente.
Poi, per arrotondare ulteriormente il guadagno, la vendette per 50 lire ad un prete, che ne abusò per 5 giorni.
Irma, Salvatore Di Giacomo
Una straziante poesia di Salvatore Di Giacomo racconta la storia di una prostituta napoletana:
D’ ‘a lucanna, aieressera,
mmiez’ ‘a via nne fuie cacciata:
mmiez’ ‘a via sulagna e nnera
tutt’ ‘a notte Irma è restata.
Tutt’ ‘a notte ha fatto ‘a cana:
sotto e ncoppa ha cammenato
na serata sana sana.
E nisciuno s’è accustato…
Irma: nomme furastiero:
ma se chiamma Peppenella:
fuie ngannata ‘a nu furiero,
e mo… campa… (puverella!)
Passa gente. È fatto iuorno.
«Psst! Siente!…» E rire… e chiamma…
C’ ha dda fa’ si ha perzo ‘o scuorno?
C’ ha dda fa’? Se more ‘e famma.
Mmerz’ ‘e nnove s’ ha mangiata
na fresella nfosa all’ acqua.
E mo, comme a na mappata,
sta llà nterra. E dorme, stracqua.
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