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La Chinea era l’antica donazione che i re di Napoli, annualmente, erano tenuti a concedere al Pontefice. Questa usanza, praticata sin dal periodo angioino, fu tra le consuetudini più antiche e famose del regno, che legava i suoi governanti in maniera diretta con la città di Roma e col soglio pontificio. Tuttavia, specialmente dal Settecento, tale imposizione divenne più stringente, tanto per gli intellettuali quanto per i reggenti del regno di Napoli, costretti a pagare una tassa di vassallaggio ad un’autorità percepita ormai come tirannica e straniera.

Chinea
Possibile rappresentazione della Chinea nella Cappella dei Magi a Firenze

La Chinea, quando nacque e in che contesto

Come già accennato, la Chinea fu istituita probabilmente sotto Carlo I d’Angiò. Il primo angioino poté muovere guerra al Manfredi di Svevia solo grazie all’approvazione papale, il cui potere feudale era riconosciuto, quantomeno giurisdizionalmente, sull’intero regno. La donazione annuale della Chinea divenne quindi un modo per la nuova dinastia di legittimare la propria conquista, mettendo in mostra annualmente la sua devozione e il suo legame con la Santa Sede, sulla cui approvazione si basava la legittimazione di maggior rilievo per i governanti angioini.

Nel corso dei secoli la donazione fu continuata acquisendo una forma alquanto peculiare: a Roma, annualmente, doveva presenziare un legato del regno di Napoli sulla groppa di un cavallo bianco, recante con sé una somma di circa 7000 Scudi d’oro, all’epoca una cifra immensa. La Chinea divenne, specialmente nel corso dei Seicento, occasioni di grandi feste tra Napoli e Roma.

Scudo d’oro di Carlo V

I nobili più insigni del Mezzogiorno facevano a gara per portare l’omaggio feudale al Pontefice, allestendo nella Città Eterna cerimonie e feste a dir poco opulente, usanza del resto tipicamente seicentesca e barocca. Tuttavia, dal Settecento in poi, la situazione cambiò drasticamente a causa, in particolar modo, dei mutamenti politici e culturali che ebbero luogo nel regno di Napoli.

Litografia settecentesca ritraente arredi effimeri e macchine per fuochi d’artificio allestiti in occasione della cerimonia per la consegna della Chinea

L’abolizione della Chinea

Una nuova generazione di intellettuali, funzionari, borghesi e patrizi, in particolar modo nel Settecento, iniziò a sentire come oppressive e illegittime le ingerenze della Chiesa nel Regno di Napoli. I privilegi e le enormi proprietà degli ecclesiastici nel Mezzogiorno divennero motivo di una serrata battaglia ideologica, politica e giuridica, in cui i riformatori di tutto il regno difesero a spada tratta la sua indipendenza dalla Santa Sede e dalle sue prerogative ormai secolari.

Con l’insediamento della dinastia borbonica sul trono del Regno, la polemica relativa alla donazione della Chinea divampò: essa era vista ormai come un‘usanza barbara e svilente, legata a un mondo medievale di cui ormai si volevano negare gli squilibri e i privilegi. Per molti riformisti meridionali ormai non vi era più posto, in uno stato indipendente e moderno, per un pegno di vassallaggio verso il Pontefice, percepito come motivo di profonda vergogna agli occhi dell’Europa.

Fu così che, grazie in particolar modo al contributo dell’allora primo ministro Domenico Caracciolo, si decise di abolire, quantomeno parzialmente, la Chinea. Nel 1788 il cavallo bianco non arrivò a Roma come di consuetudine: era ormai giunta la fine di tale usanza, dalla storia plurisecolare. La Chinea fu tramutata in una mera offerta pecuniaria verso la Santa Sede, che i re di Napoli compivano, quantomeno sulla carta, per pura devozione. Ciò, probabilmente, fu deciso per mitigare quello che per la Santa Sede fu un vero e proprio affronto al suo potere temporale.

-Silvio Sannino

Ritratto del primo ministro Domenico Caracciolo

Bibliografia

Anonimo, La nuova forma della Chinea, Roma, 1788.

Chiosi E., Lo spirito del secolo, Politica e religione a Napoli nell’età dell’illuminismo, Università degli Studi di Napoli, 1992.

Lioy G., L’abolizione dell’omaggio della Chinea, «ANSP», 7, 2 (1882), pp. 201-262; 7, 3 (1882), pp. 497-530; 7, 4 (1882), pp. 713-775.

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