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“Il gatto con gli stivali” è una fiaba popolare europea che affonda le sue antiche radici nella cultura napoletana, grazie alla versione data alla luce negli anni ’30 del Seicento da Giovan Battista Basile (successiva a quella cinquecentesca del novelliere Giovanni Francesco Straparola).

La cultura popolare in forma letteraria: Basile ed il suo “Lo cunto de li cunti”

Il Seicento fu un secolo di grande cambiamento nel mondo letterario italiano: a seguito della pubblicazione delle “Prose sulla volgar lingua” a cura di Pietro Bembo (1525), venne codificata la lingua letteraria italiana (quella da dover utilizzare in tutte le opere scritte), ossia il toscano trecentesco adoperato da Petrarca (per la poesia) e da Boccaccio (per la prosa).

Tale riforma linguistico-letteraria obbligò autori dei secoli successivi e ben lontani dal parlare il toscano, specialmente quello trecentesco, ad applicare una lingua nei propri testi letterari che non era la loro, ma, anzi, che avvertivano come distante e alienante.

Sorse, in maniera inevitabile, specialmente nel corso del Seicento, il bisogno di inserire il dialetto in letteratura: alcuni autori necessitarono di esprimersi nei loro testi tramite la lingua che più gli apparteneva, andando a ricercare consapevolmente tratti provenienti dal proprio dialetto da sostituire a quelli del toscano letterario trecentesco.

Tra questi, Giovan Battista Basile, scrittore nato a Napoli nel 1572, fu uno dei primi esponenti della produzione letteraria in napoletano, in quanto rivendicò nei suoi testi il primato dell’elemento dialettale contro il predominio della lingua toscana.

Ritratto di Giovan Battista Basile – Autore de “Il gatto con gli stivali”

L’opera più celebre di Basile è “Lo cunto de li cunti” (“La fiaba delle fiabe”), ribattezzata anche come “Pentamerone” per l’affinità col “Decamerone” di Boccaccio. Infatti, “Lo cunto de li cunti” è una raccolta di cinquanta fiabe, raccontate da dieci vecchie nel corso di cinque giornate, situazione che costituisce la cornice della raccolta.

La rivoluzione letteraria di Basile fu sorprendente: non solo si appropriò della facoltà di utilizzare il dialetto napoletano in letteratura (anche se si trattò di un dialetto “depurato”, adattato ai fini di un’opera letteraria), ma, per la prima volta nella storia della letteratura italiana, diede autonomia al genere della fiaba. La fiaba, grazie a Basile, diventò un genere letterario vero e proprio, mentre dapprima i singoli temi fiabeschi erano ripresi a servizio di altri generi (ad esempio, venivano inseriti all’interno di un romanzo per illustrarne metaforicamente la morale).

Finalmente nel Seicento la fiaba ottenne la sua autonomia e si distinse, con Basile, anche per la sua peculiarità linguistica.

“Il gatto con gli stivali” in dialetto napoletano

La fiaba “Il gatto con gli stivali”, famosa tutt’oggi grazie specialmente ai recentissimi adattamenti cinematografici (gli ultimi risalgono al 2011 e 2022), è una storia che tratta dell’altruismo, della scaltrezza e della riconoscenza.

Il gatto con gli stivali

Giovan Battista Basile, tra le cinquanta fiabe in dialetto napoletano che compongono il suo “Lo cunto de li cunti”, decise di dedicare uno spazio, quello del “trattenemiento quarto de la iornata seconda” alla storia di un gatto, lasciato in eredità dal padre di un mugnaio al figlio secondogenito.

Cagliuso, pe’ nustria de na gatta lassatole da lo patre, diventa signore; ma, mostrannosele sgrato, lìè rennfacciata la sgratetudene soia.

Introduzione alla fiaba del trAttenemiento quarto, iornata seconda, lo cunto de li cunti.

“C’era una volta a Napoli” (“era na vota a la cettà de Napole”): così esordì Basile nella sua fiaba, anticipazione di quella moderna de “Il gatto con gli stivali”. Nel capoluogo campano che fa da sfondo alla maggior parte dei racconti de “Lo cunto de li cunti”, vive un povero e anziano mugnaio che, in fin di vita, chiama a raccolta i due figli, Oraziello e Cagliuso. Scusandosi della mancanza di una vera e propria eredità, decide comunque di lasciare ufficialmente ai figli due dei suoi “beni” tramite i quali poter guadagnarsi il pane. Il vecchio dona al primogenito il suo crivello, mentre a Cagliuso un, apparentemente, banalissimo gatto.

Mentre Oraziello non si perde in chiacchiere e, preso il crivello lasciatogli dal padre, va in giro in cerca di guadagni, Cagliuso non riesce a cogliere il senso del “dono” ricevuto. Anzi, più che una gentile offerta del padre, il gatto per lui non può costituire altro se non un peso: adesso dovrà badare anche a quel felino oltre che a sé.

Ma, come è noto, una fiaba non è tale senza l’elemento magico: infatti, il gatto in questione non è comune a tutti gli altri animali, ma è dotato del dono della parola e di una scaltrezza e intelligenza sopraffina.

Dopo aver ascoltato le lamentele del neo-padrone, il gattino si ingegna subito in un piano per far diventare Cagliuso felice, parlandogli e rassicurandolo del fatto che, presto o tardi, lo renderà ricco. E, quelle del gatto, non sono parole a vuoto: la mattina seguente si reca a Chiaia dove, all’alba, i pescatori consegnano il pescato della notte precedente e, dopo aver rubato qualche gustosa orata, la porta al re in veste di presente da parte del “signor Cagliuso”. Il re, pur non conoscendo nessun “signor Cagliuso” non si insospettisce ma, anzi, accetta con allegria l’offerta ricevuta.

Avviene, così, che anche nei i giorni seguenti lo scaltro gatto porta in dono al re tutto ciò che riesce a rubare per le vie di Napoli. Ogni volta si presenta alla corte con la stessa ambasciata: “A gran segnore piccolo presiento”, spacciando le sempre nuove refurtive per proprietà di Cagliuso e facendo così credere al re che il suo padrone sia un ricchissimo signore che si può economicamente permettere di fare infiniti regali.

Dopo un po’ di tempo, il re, volendo dimostrare la sua riconoscenza verso il signore misterioso che inviava innumerevoli doni attraverso il proprio gatto, chiede di poterlo ricevere e il gatto non si lascia sfuggire l’occasione d’oro per far diventare realmente ricco il suo padrone. Infatti, la mattina seguente lo strambo felino, giunto alla corte del re, inventa che il suo padrone Cagliuso ha subito un furto da parte di alcune sue cameriere, le quali si sono appropriate di tutte le sue camicie, scappando poi via.

Il re, che in cuor suo credeva di dover mostrare infinita riconoscenza nei confronti di Cagliuso, ordina ai suoi sottoposti di inviargli camicie e biancheria, e di organizzare un banchetto in suo onore.

Durante l’allegro banchetto, mentre Cagliuso pensa a rimpinguarsi di cibo con ingordigia, il gatto mira a portare avanti il suo piano: far diventare ricco il suo padrone. Infatti, esalta davanti al re l’intelligenza, il valore e soprattutto la ricchezza delle proprietà terriere di Cagliuso, la cui esistenza, specifica il gatto, può ben essere dimostrata, nel caso in cui il re non creda alle sue parole.

Il re, allora, per verificare la sincerità del felino, prepara alcuni suoi fidati per andare ad ispezionare quei territori che il gatto aveva dichiarato appartenevano a Cagliuso. Il gatto, avendo già previsto la mossa del re ed essendo imbattibile in astuzia, anticipa i sottoposti reali e si reca istantaneamente nei villaggi vicini. Ad ogni pastore che incontra, il gatto grida di far attenzione: inventa che dei banditi stanno arrivando a saccheggiare le terre lì intorno e che, se i rispettivi padroni vogliono scampare alla furia degli imminenti criminali, dovranno sostenere che tutto lì intorno è “roba del signor Cagliuso” e, in quel caso, saranno lasciati in pace.

Una volta giunti presso le terre limitrofe alla corte reale, gli inviati del re interrogano gli abitanti lì presenti su chi ne sia il proprietario; e tutti, credendo che quelli siano i banditi di cui aveva parlato il gatto, rispondono allo stesso modo: “È roba del signor Cagliuso”. È così che, con abilità e astuzia, il gatto riesce a convincere l’intera corte che Cagliuso sia il vero possessore di una vastità di terreni e che, in quanto tale, merita di appartenere alla famiglia reale.

Il re, infatti, decide di dare in sposa sua figlia a Cagliuso, donandogli l’intera dote, con la quale, poco dopo, il novello sposo compra realmente un vastità di terre e vi si trasferisce con la moglie e il gatto, acquisendo poi anche il titolo di barone.

A quel punto, Cagliuso non può che mostrarsi (almeno inizialmente) riconoscente nei confronti del suo gatto: è solo grazie a lui se ora gode di una ricchezza infinita e fa parte della famiglia reale. Gli giura, addirittura, che non appena l’amato felino sarebbe tristemente deceduto, lui lo avrebbe imbalsamato, inserito in un contenitore d’oro ed esposto nella sua camera, così da avere davanti agli occhi costantemente la sua memoria.

Allora il gatto, per mettere alla prova il suo padrone, decide poco dopo di fingersi morto e, non appena Cagliuso lo scopre, invece di mantenere il giuramento fatto, chiede alla moglie di prendere l’animale per una zampa e gettarlo via dalla finestra.

Il gatto, sorpreso e deluso dagli ordini del suo padrone, che gli avrebbe dovuto mostrare riconoscenza a vita, impreca contro Cagliuso, maledicendosi per averlo aiutato nel diventare ricco, e per essersi lasciato impietosire dalla miseria in cui viveva. Il gatto comprende l’inutilità delle proprie gesta, in quanto “chi aseno se corca, aseno se trova!” (chi asino si addormenta, asino si risveglia). Cagliuso è paragonato da lui a un mulo: non essendo dotato di estreme capacità o intelligenza, non può trasformarsi e diventare improvvisamente un uomo di ricche virtù. Il gatto comprende che l’animo di Cagliuso è sciocco, pigro e menefreghista, e che aveva sbagliato ad aspettarsi anche la minima riconoscenza da una persona tale.

Il felino, giunto alla consapevolezza che “chi chiù fa, manco aspetta” (chi più fa, meno si aspetta), decide di scappar via, inseguito da Cagliuso che, invano, cerca di allisciarselo e compiacerlo per trattenerlo con lui.

La fiaba si conclude con l’abbandono di Cagliuso da parte del gatto, il quale esclama: “Dio te guarda de ricco ‘mpoveruto e de pezzente quanno è risagliuto”, (Dio ti considera una persona ricca quando sei povero, e pezzente quando ti sei arricchito), lasciando intendere che la ricchezza materiale ottenuta ora da Cagliuso non ha fatto altro che impoverire il suo animo, che di certo era più ricco quando viveva nella miseria. La ricchezza materiale, dunque, non va di pari passo con quella dell’anima, come dimostra manifestatamente il giovane protagonista.

Le morali ne “Il gatto con gli stivali”

Come in ogni fiaba, dunque, anche qui è presente una morale, ovvero un insieme di valori che si vogliono trasmettere al pubblico di lettori attraverso i comportamenti dei personaggi. Tali principi insegnano a distinguere il bene dal male e a illustrare quale sia il giusto comportamento da adottare nelle più svariate situazioni.

Nel caso della fiaba “Il gatto con gli stivali”, vi sono diversi messaggi morali da poter cogliere. Innanzitutto, il racconto ci insegna che non importa quanto misere siano le cose che la vita ci offre in dote: non bisogna lamentarsi di quel poco che si ha, ma cercare di sfruttarlo al meglio.

Inoltre, il gatto attesta che con l’intelligenza si possono raggiungere obiettivi molto più grandi di sé e che è giusto aiutare il prossimo, ma ciò deve esser fatto sempre in maniera disinteressata. Prestare soccorso a chi è al nostro fianco deve esser frutto della pura volontà di supportare l’altro, senza aspettarsi nulla in cambio. Dall’altra parte, però, è anche giusto dimostrare riconoscenza presso chi ci ha offerto il proprio beneficio, perché, altrimenti, il nostro animo dimostra di essere ricolmo di ingratitudine e unicamente proiettato allo sfruttamento dei beni e aiuti altrui.

In ultima analisi, un’altra morale è quella secondo cui “l’abito, la ricchezza e la gioventù, per ispirare tenerezza, non sono mezzi sempre indifferenti”. Infatti, il re non avrebbe mai offerto la mano di sua figlia a Cagliuso, se questo non si fosse presentato sotto le vesti di un ricco marchese, né tantomeno la figlia del re sarebbe stata disposta a sposarlo. In un mondo (anche quello delle fiabe) dove la ricchezza materiale è spesso più importante di quella interiore, Cagliuso ha bisogno della scaltrezza e dell’inganno per poter raggiungere il suo obiettivo.

Per concludere, Giovan Battista Basile ha permesso non solo di far sviluppare la letteratura in dialetto in tutta Italia, facendogli guadagnare il rispetto che meritava, ma ha dato vita a una delle fiabe più lette e amate di tutti i secoli a venire: il gatto con gli stivali sarà impresso nella memoria di tutte le generazioni da qui all’eternità.

Bibliografia

Letteratura Italiana, Da Tasso a fine Ottocento; G. Alfano, P. Italia, E. Russo, F. Tomasi; Mondadori, Milano, 2018.

Lo cunto de li cunti; G.B. Basile.

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