Palazzo D’Avalos è un edificio storico di Procida, costruito nel 1560, noto per essere stato sia una residenza reale che un carcere. Si trova nell’antico borgo di Terra Murata, nella parte alta dell’isola, affacciato sul mare.
La costruzione di Palazzo D’Avalos
Fu costruito per volere del cardinale Innico D’Avalos, feudatario di Procida. Si inserì nel progetto di fortificazione dell’isola, che prevedeva di costruire mura difensive allo scopo di proteggere la popolazione dai pirati. Visto dal mare, Palazzo D’Avalos appare infatti come un baluardo difensivo dell’intera isola. L’intero progetto di mura difensive diede il nome alla zona di Procida dove fu costruito, ossia Terra Murata.
Fu realizzato in tufo e piperno, materiali reperibili sull’isola, terra che ha geologicamente un’origina vulcanica.
Palazzo D’Avalos: da residenza reale a carcere
La destinazione di Palazzo D’Avalos cambiò con l’insediamento dei Borbone a Napoli, nel 1734. L’edificio divenne residenza reale, con i regnanti che frequentavano l’isola per praticare la caccia al fagiano e al coniglio.
Sarebbe divenuto in seguito una scuola militare, per poi trasformarsi in un bagno penale nel 1830, per volere di re Ferdinando II di Borbone. Furono, a questo scopo, murati i grandi portali e apposte grate su porte e finestre. Gli ampi saloni furono ridimensionati, per creare delle camerate multiple, capaci di ospitare decine di detenuti ma sprovviste di servizi igienici. Come carcere avrebbe ospitato inizialmente detenuti politici, per poi passare a gerarchi fascisti ma anche ai criminali comuni.
La funzione penitenziaria fece sì che gli spazi furono ampliati, con la costruzione di aree esterne a Palazzo D’Avalos. Oltre che ulteriori celle, furono realizzate anche strutture necessarie alla vita del carcere, tra cui il palazzo che ospitava le famiglie delle guardie, la lavanderia, gli opifici, la villa del direttore e l’ospedaletto. Fu anche messo a coltura un terreno agricolo, dove lavorarono i detenuti.
Utilizzato fino agli anni Settanta, Palazzo D’Avalos è stato chiuso definitivamente nel 1988 e poi abbandonato. Attualmente è aperto al pubblico per visite culturali, mostre ed eventi.
La lavorazione del lino
All’interno del carcere vi erano anche degli opifici. I detenuti di Procida, in particolare, erano rinomati per la lavorazione del lino, elemento che unisce quelle che per molto tempo sono state due isole, una dentro l’altra. Il carcere era, in un certo senso, un’isola nell’isola.
Il lino prodotto all’interno del penitenziario veniva infatti successivamente ricamato dalle donne procidane, realizzando corredi.
Palazzo D’Avalos nell’opera di Elsa Morante
Il carcere è anche utilizzato come ambientazione ne L’isola di Arturo, romanzo di formazione di Elsa Morante del 1957, vincitore del Premio Strega.
Da circa duecento anni, il castello è adibito a penitenziario: uno dei più vasti, credo, di tutta la nazione. Per molta gente, che vive lontano, il nome dell’isola significa il nome di un carcere.
Elsa Morante – L’isola di Arturo
La scrittrice riuscì a intrecciare la trama dell’opera con la funzione carceraria di Palazzo D’Avalos. I pensieri, le vicende e le vite dei protagonisti ruotano anche intorno all’istituto penitenziario, con i detenuti che arrivano al porto di Procida quasi come fossero degli insoliti turisti. Nelle pagine de L’isola di Arturo si racconta infatti della discesa degli ergastolani dai piroscafi, che arrivavano insieme agli abitanti locali, sbarcando però “nell’ultimo turno”.
Il carcere, pur essendo così distante emotivamente dai luoghi e dalle bellezze procidane, contribuì non poco all’ispirazione di Elsa Morante.
Un’isola nell’isola
Palazzo D’Avalos riesce atipicamente a inserirsi tra le meraviglie di Procida. Parte integrante di Terra Murata, è passato dal difendere l’isola dai pirati all’essere un centro di detenzione per i criminali.
La sua bellezza non passò inosservata ai regnanti borbonici, che lo inserirono tra le loro residenze. Forse però l’edificio era talmente bello da provocare invidia e attirare troppo attenzioni, in quanto facilmente visibile da tutti i naviganti che raggiungevano Napoli. Venne per questo probabilmente abbandonato dai Borbone.
Si tentò di nascondere il suo fascino, chiudendolo in celle ricavate da sfarzosi saloni. I detenuti furono così rinchiusi in ambienti che avevano ospitato feste e ricevimenti mondani, propri della nobilità regnante.
La sua bellezza non sfuggì però alla sensibilità di Elsa Morante, che ne fece quasi un simbolo dell’isola. Un’isola nell’isola, che riesce a raccontare la più intima essenza di Procida, custodita da chi non può in alcun modo lasciarla.
Foto di copertina di depositphotos.
Bibliografia:
Associazione Palazzo D’Avalos; Da reggia a carcere, guida a Palazzo d’Avalos; Edizione Nutrimenti; 2020
Sitografia:
https://www.procida2022.com/iniziative/lex-carcere-si-racconta-con-i-ricami-del-lino
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