“Avimmo perduto a FFelippo e ‘o panaro” è un proverbio napoletano che ha origine da una farsa pulcinellesca di Antonio Petito. Questi fu un attore e comico napoletano, figura di spicco nel mondo della commedia dell’arte verso la metà del XIX secolo.

In qualità di drammaturgo, compose canovacci e copioni in cui protagonista era la figura di Pulcinella, da lui stesso interpretata. Antonio Petito, infatti, può considerarsi come uno dei più apprezzati “Pulcinella” del teatro napoletano.

In uno dei testi da lui scritti, compare il personaggio di Filippo e l’espressione, diventata poi proverbio napoletano, “Avimmo perduto a Ffelippo e ‘o panaro”.

Avimmo perduto a Ffelippo e 'o panaro
Ritratto di Antonio Petito.

Il significato ad litteram del proverbio

“Abbiamo perduto Filippo e la cesta” è il significato letterale dell’espressione napoletana tratta dalla farsa di Antonio Petito. In questa si racconta di un certo Pancrazio che affida al suo servo Filippo una cesta di vivande, affinché la porti a casa. Filippo, però, incontratosi con dei suoi compagni, divora insieme a loro il contenuto della cesta, disubbidendo, così, al suo padrone. Temendo la reazione di Pancrazio, il servo decide di non far mai più ritorno a casa del padrone, lasciandolo, dunque, esclamare: “Avimmo perduto a Ffelippo e ‘o panaro”.

Il significato del detto, quindi, dovrebbe rinviare all’aver perduto tutto, sia il capitale che gli interessi.

Analisi linguistica del proverbio

In questa espressione possiamo riscontrare un’incoerenza grammaticale: il verbo “avimmo perduto” regge dapprima un (apparente) complemento di termine (“a Ffelippo”) e in seguito un complemento oggetto (“‘o panaro”). In italiano il verbo perdere risponde unicamente alla domanda “chi/che cosa?” e, dunque, regge il complemento oggetto.

Lo stesso vale, in realtà, per il napoletano: “a Ffelippo” ha funzione di oggetto, seppure introdotto, secondo una regola della grammatica napoletana, dalla preposizione “a”. Questa regge un complemento oggetto quando l’oggetto in questione è una persona (in questo caso Filippo) o un animale, e mai una cosa (come “il panaro”).

Questa “a” davanti a nome di persona o di animale per esprimere il complemento oggetto in napoletano potrebbe risalire al latino volgare parlato, da cui deriva l’italiano (come anche lo spagnolo, il portoghese e il rumeno: lingue in cui perdura l’uso della A premesso al complemento oggetto).

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