Quando ci capita di sentire un napoletano dire “abbascio” invece di “giù”, o di vedere qualcuno che guadagna qualcosa “abbuscando”, probabilmente non ci rendiamo conto di aver assistito a un piccolo miracolo linguistico: sono parole che hanno attraversato secoli di storia, arrivando fino a noi direttamente dalla Spagna del Cinquecento e Seicento.

Quando Napoli era spagnola

La storia inizia nel XVI secolo, quando l’Italia meridionale diventa terreno di conquista per la corona spagnola. Per circa tre secoli, dal 1503 al 1707, Napoli e gran parte del Sud Italia vivono sotto il dominio iberico. E quando una lingua si installa per così tanto tempo in un territorio, inevitabilmente lascia le sue tracce.

Come documenta la ricerca di Giovanna Riccio dell’Università di Trieste (2005), “la penetrazione dei prestiti dalla lingua spagnola nell’italiano è stato un fenomeno che si è evoluto nel corso dei secoli, raggiungendo nel ‘500 e ‘600 il periodo di maggiore influsso”. E indovinate dove queste tracce sono più evidenti? Proprio “nell’Italia meridionale, dove il contatto con la lingua spagnola è stato più duraturo e costante”.

Galanteria, pompa… e cattive abitudini

Ma cosa pensavano davvero i napoletani dei loro dominatori? Il quadro che emerge dai documenti storici è decisamente grottesco. Da un lato, gli spagnoli affascinavano la popolazione locale con la loro “galanteria, dalla pompa e dai loro modi cortesi ed ossequiosi” . Erano considerati eleganti, raffinati, dei veri gentleman ante litteram, anche se il loro comportamento sfociava in un modo di fare talmente pomposo e cerimoniale da risultare spesso ridicolo e irritante agli occhi dei politici spagnoli.

Dall’altro lato, però, c’erano aspetti decisamente meno edificanti. Pontano, cronista dell’epoca, li accusava nientemeno che di aver corrotto i costumi napoletani insegnando loro “la pessima abitudine di giurare sul ‘cuore’ o sul ‘corpo di Dio’, la passione per le prostitute, ed il disprezzo per la vita umana, causa del moltiplicarsi dei reati di sangue”.

Insomma, gli spagnoli erano visti come dei dongiovanni eleganti ma pericolosi, che avevano portato a Napoli non solo mode e vezzi aristocratici, ma anche una certa dose di violenza e libertinaggio.

La febbre dello spagnolo: quando parlarlo era di moda

Non solo soldati e funzionari venivano dall’Iberia. Quello che colpisce è quanto fosse pervasiva la presenza spagnola e quanto fosse diventato trendy parlare castigliano. A Napoli, Roma e soprattutto Venezia si stampavano libri spagnoli “destinati essenzialmente alla popolazione spagnola residente in Italia, ma un ridotto pubblico di italiani si dimostrò interessato a questo tipo di letteratura”.

Ma il fenomeno più divertente era l’atteggiamento dei nobili napoletani: “Tra le classi più elevate della società, i signori spesso si cimentavano con zelo nel parlare la lingua spagnola, considerando questo loro comportamento un segno di affetto e di lealtà nei confronti dei loro sovrani”.

Praticamente il primo caso documentato di name dropping linguistico della storia! I lord partenopei si sforzavano di parlare spagnolo per fare bella figura, un po’ come oggi qualcuno infarcisce le conversazioni di inglese per sembrare più cool.

L’Accademia degli Oziosi: quando lo spagnolo era chic

La passione per la lingua iberica raggiunse livelli quasi ridicoli con la nascita dell’Accademia degli Oziosi, dove “agli inizi del XVII sec., la nobiltà napoletana ne coltivava lo studio“. Il nome stesso è tutto un programma: nobili con tempo libero che si dedicavano a studiare lo spagnolo per hobby intellettuale.

E non finisce qui: alcuni poeti italiani “si dilettavano a scrivere canzonette e strambotti in spagnolo“, dando vita addirittura a “veri e propri scrittori italiani in lingua spagnola” (Riccio, 2005). Immaginate: artisti napoletani che scrivevano in una lingua straniera per sembrare più sofisticati. Oggi li chiameremmo wannabe!

Il teatro e la musica: quando l’entertainment parlava spagnolo

Il fenomeno era talmente diffuso che nacque un’intera industria dell’intrattenimento iberica. I teatri italiani ospitavano “rappresentazioni teatrali spagnole il cui uditorio era costituito prevalentemente da spagnoli, ma anche da un più ridotto pubblico di italiani“. Nelle corti “entrarono in voga molte danze di origine iberica” e non mancavano “musicisti spagnoli”.

Praticamente Netflix e Spotify del Cinquecento, ma in versione spagnola: la vita culturale di Napoli era fatta solo da prodotti d’oltremare. Oltre al teatro e alla musica, in città si stampavano “drammi e libri di poesie di noti autori spagnoli, quali Juan de la Encina e Bartolomé de Torres Naharro“. Gli spagnoli avevano creato il loro ecosistema culturale, ma con un pubblico misto che includeva napoletani affascinati dall’esotico.

Il dialetto come archivio storico

Il risultato di questa massiccia presenza culturale? Il napoletano è diventato uno dei dialetti italiani “maggiormente ricco di ispanismi”, come documenta la ricerca triestina. Ma attenzione: districare l’origine delle parole non è stato semplice.

La studiosa ammette che “l’indagine si è rivelata fin dal principio abbastosa difficoltosa“, perché i vecchi dizionari napoletani “spesso fornivano etimologie che, ad un primo riscontro, apparivano prive di ogni fondamento scientifico”.

I misteri etimologici del napoletano

Facciamo qualche esempio concreto delle stranezze che hanno trovato i linguisti. La parola “abbascio” (che significa “giù”): secondo Altamura deriva dallo spagnolo “abajo”, ma secondo D’Ambra viene dal greco “bathos”. Peggio ancora: D’Ambra sosteneva che “sommozzatore” derivasse dallo spagnolo “zohor”… che però non esiste! Era una parola inventata di sana pianta.

Oppure “giarra” (brocca): viene dallo spagnolo “jarra” o direttamente dall’arabo? E che dire di “abbuscare” (guadagnare), che sembra derivare chiaramente dallo spagnolo “buscar”? È come un puzzle linguistico dove alcuni pezzi si sono persi per strada.

Parole che raccontano storie

Ogni ispanismo nasconde un piccolo racconto. Prendiamo “muy bien”: i napoletani del Cinquecento lo usavano così com’era, senza nemmeno tradurlo. Era diventato un intercalare elegante, un modo per dire “molto bene” con un tocco di classe internazionale.

Poi ci sono parole come “formosura” (bellezza), “porfia” (ostinazione), “linda” (bella), “creato” (servo): termini che circolavano nelle conversazioni alla corte vicereale e che piano piano sono scivolati nel parlato quotidiano.

Un puzzle linguistico da ricomporre

Per questo la ricerca ha dovuto categorizzare i prestiti in tre gruppi: quelli certi, quelli dubbi e quelli falsi (Riccio, 2005). Un lavoro certosino che ha richiesto il confronto con i più moderni dizionari etimologici e metodologie scientifiche aggiornate.

Il napoletano di oggi, insomma, è un po’ come un palazzo antico dove ogni pietra racconta una storia diversa. Alcune parole arrivano dal latino, altre dal greco, altre ancora dal francese o dall’arabo. Ma una fetta importante del vocabolario partenopeo porta ancora i segni indelebili di quei tre secoli in cui Napoli guardava verso Madrid.

L’eredità che non se ne va

Oggi, quando sentiamo un napoletano parlare, ascoltiamo in realtà un concentrato di storia europea: l’eco di dominazioni, scambi commerciali, contaminazioni culturali che hanno attraversato i secoli. E forse è proprio questa stratificazione linguistica a rendere il dialetto napoletano così musicale e affascinante.

Chissà se quei nobili dell’Accademia degli Oziosi, così impegnati a imparare lo spagnolo per far colpo sui viceré, si sarebbero mai immaginati che le loro parole sarebbero arrivate fino a noi, nascoste nei vicoli di Spaccanapoli o nelle canzoni di Pino Daniele.


Fonte principale: Riccio, G. (2005). Ispanismi nel dialetto napoletano. Università degli studi di Trieste.
https://www.docsity.com/it/docs/spagnolo-e-italano-le-loro-affinita/5187893/
https://it.readkong.com/page/gli-ispanismi-nella-lingua-italiana-e-nei-suoi-dialetti-in-1087796

Diventa un sostenitore!

Storie di Napoli è il più grande ed autorevole sito web di promozione della regione Campania. È gestito in totale autonomia da giovani professionisti del territorio: contribuisci anche tu alla crescita del progetto. Per te, con un piccolo contributo, ci saranno numerosissimi vantaggi: tessera di Storie Campane, libri e magazine gratis e inviti ad eventi esclusivi!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *