“mettere ‘o ppepe ‘nculo ‘a zoccola” è un modo di dire volgare che ha origine nel gergo popolare.
I napoletani hanno sempre avuto un rapporto particolare con termini e detti, utilizzati di frequente per sbeffeggiare ed enfatizzare situazioni, emozioni o persone. Tutto ciò è frutto di una stratificazione sociale e culturale derivante dall’esperienza e dalle vicissitudini più disparate che hanno plasmato un modus operandi del tutto innovativo, improntato sullo sdrammatizzare le difficoltà ed arrangiarsi laddove sia possibile.
“Zoccola” e “Mettere ‘o ppepe ‘nculo a’ zoccola” sono due espressioni un po’ grossolane che si potrebbero ascoltare passeggiando per i vicoli più caldi di Napoli, in cui si può ancora percepire quel fare autentico che contraddistingue la gente del popolo. Lestamente il collegamento mentale che si fa, rimanda a simpatici roditori che brulicano di tanto in tanto, ma sarà proprio così?
“Zoccola”
Il vocabolo deriva dal latino “sorex” che identifica la femmina del topo, il cui diminutivo “sorcula” è stato trasformato in zoccola.
A Napoli e dintorni con “zoccola” si appellano sia i ratti di fogna sia le donne di facili costumi. Come mai?
Per molto tempo si è pensato che tale parola, data appunto per definire la classica prostituta, derivasse dalla femmina del topo e dall’associazione della sua grande prolificità ed intensa attività sessuale. Stranamente invece, la definizione non viene da questo piccolo animaletto, bensì da semplici calzature: gli “zoccoletti”.
Le nobildonne napoletane nel Settecento erano solite indossarli per passeggiare lungo Via Toledo in modo da proteggere e non sporcare di fanghiglia i loro lunghi ed eleganti vestiti, soprattutto dopo le piogge che portavano sudiciume proveniente dai Camaldoli e dal Vomero.
Le meretrici dei contigui quartieri spagnoli, le famose “signurine”, cercando di imitare tali dame, si agghindavano come meglio potevano: sfoggiavano vesti grossolanamente ricamate, indossavano parrucche colorate ma soprattutto calzavano zoccoletti altissimi per farsi riconoscere ed attirare i clienti.
Da questa stravagante usanza, l’associazione fu presto fatta e “zoccola” passò ad essere il nome con cui venivano identificate tali donne.
“Mettere ‘o ppepe ‘nculo a’ zoccola”
Letteralmente vuol dire : introdurre pepe nel deretano di un ratto. Una massima utilizzata per descrivere il comportamento scorretto di qualcuno che invece di mettere pace in una contesa, ha piacere nell’attizzare ancora di più il fuoco della discussione.
Affonda le sue origine dai bastimenti mercantili del 1600 e la peste dilagante di quel tempo: quando si navigava, capitava che sulle navi assieme alle merci, solcassero i mari grossi topi, portatori della malattia. Poiché era molto difficile catturarli, i marinai escogitarono questo stratagemma: ne adescavano qualcuno, infilavano un pugnetto di pepe nero nell’ano e poi li liberavano. I topi impazziti dal bruciore, si avventavano contro i loro simili ammazzandosi a vicenda, così ai mozzi non restava altro che raccogliere le carcasse e liberare lo scafo.
Questa tecnica venne poi utilizzata nella città di Napoli durante l’epidemia di peste che la colpì e che fece quasi 600.000 morti, ma non ebbe i risultati sperati.
Fortunatamente il 15 agosto 1656 intervennero San Gennaro e San Gaetano, i quali fecero abbattere un diluvio violentissimo che affogò i topi nelle fogne e a ricordo di questo evento prodigioso fu eretta una lapide commemorativa: “ad pestae liberatum“.
La napoletanità, quindi, è una sorta di filosofia empirica da una scarpa ci si ricollega ad una “zoccola” e da una triste sventura si trae, in fondo, un simpatico detto “Mettere ‘o ppepe ‘nculo a’ zoccola.
Anna Barone
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