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La storia del Regno di Napoli fu punteggiata da esplosioni di violenza di cui un tragico esempio fu il linciaggio di Giovan Vincenzo Storace Eletto del Popolo.
Fu un massacro collettivo così crudo, feroce e violento che diede origine al verbo “Starracciare, che indicava una punizione mostruosa.

Cominciamo con un antefatto:
Nel 1585 Filippo II scriveva al viceré di Napoli don Pedro Tellez Giron, Grande di Spagna e Duca di Ossuna, richiedendo l’invio della maggior quantità di frumento, “purché il Regno non ne patisse scomodo”, per fronteggiare una grave carestia che attanagliava la Spagna.

L’ossequioso Viceré si affrettò a convocare gli Eletti della Città di Napoli e si stabilì di inviare ben 400.000 tomoli di grano, operazione dalla quale il Viceré e i grandi feudatari proprietari di latifondi coltivati a grano ricavarono ingenti guadagni.

popolo in rivolta Masaniello
Il popolo in rivolta

Manca il pane a Napoli

La susseguente crisi alimentare che si abbattè sulla città provocò una grave eccitazione tra la plebe che si vedeva affamata.

Il giorno sette del mese di maggio dell’anno 1585 gli Eletti si riunirono a San Lorenzo ai Tribunali per affrontare la situazione e, saputo che vi era grano solo per pochi giorni, decisero di diminuire il peso delle ”pallotte” di pane da 48 a 38 once, fermo restando il prezzo.

Alla riunione non partecipò l’Eletto del Popolo Giovan Vincenzo Storace che aveva già tenuto la carica nel 1578 per due anni ed era stato nuovamente nominato dal Viceré il 26 novembre 1583. Era affetto da gotta e, come minuziosamente precisa lo storico Gio. Antonio Summonte, “aveva l’istessa mattina presa la purga”. Fu sostituito da due Consultori del Seggio, uno dottore in legge e l’altro dottore “fisico”, che si opposero al provvedimento restando in minoranza.
Alla notizia “gli strepiti del popolo” aumentarono e l’Eletto, convocati i 29 capitani delle Ottine e i dieci Consultori presso la sede del Sedile del Popolo nel convento di Sant’Agostino alla Zecca, alla riunione dichiarò che si sarebbe oppostoal mancamento del peso del pane” e che avrebbe portato il problema davanti al Viceré.

Confidò che don Pedro Tellez Giron tanto amava il popolo che il sabato precedente alla festa del Sangue di San Gennaro alla Selleria, “ne fa stare tutti assettati, con le barrette in testa, cosa che non ha fatto alla Nobiltà, quando in simili luoghi l’Eccellenza Sua vi era stata convitata”. Fissò una nuova assemblea nel chiostro di Santa Maria La Nova più vicino al palazzo del Viceré sito alla fine di via Toledo e raccomandò ai 29 Capitani di presentarsi con soli due membri per la scelta dei delegati.
Il giorno nove maggio la tensione era arrivata al culmine, nelle botteghe non si era trovato il pane, la plebe era inferocita.
Il popolo di Napoli sopporta ogni cosa, eccetto la mancanza del pane, che per questo non stima la vita” aveva scritto l’ambasciatore del Granduca di Toscana, ma Giovan Vincenzo Storace o era troppo stupido per rendersi conto del pericolo o era troppo coraggioso per temerlo o, molto probabilmente, era stupido e coraggioso.

Huomo di molto ricapito, ricco, buon parlatore, bianco e pieno di carne”, figlio di un ricco mercante di Piano di Sorrento che si era arricchito con l’industria della seta, amico del Viceré, godeva di stima ed era oggetto di invidia.

Napoli vicereame
Napoli ai tempi del Vicereame di Spagna

Il massacro di Giovan Vincenzo Storace

Quando giunse al chiostro, portato su una portantina da due servitori perché ancora afflitto dalla gotta, lo aspettava una folla immensa giunta da tutta la città. L’Eletto cercò di calmarla, di blandirla ma il tumulto aumentò, accusato di essere la causa della carestia venne insultato e minacciato di morte, non gli si permise di parlare, a capo scoperto sulla sua “seggetta” fu portato al Sedile del Popolo a Sant’Agostino, lungo il percorso gli vennero lanciate “porcherie in viso”.

A Mezzocannone dirimpetto alla chiesa di San Giovanni Maggiore la folla si armò saccheggiando il negozio di un “lanziere”, inutilmente Storace pregavaFratelli non mi ammazzate per amor di Dio …” ma cantava ai sordi.
La tragedia giunse all’epilogo, i frati del convento di Sant’Agostino lo strapparono faticosamente ai suoi carnefici e lo fecero rifugiare in una cappella, per mezz’ora li tennero a bada, poi il poveretto colpito al capo da un “mautone” scagliato dall’abate Salvatore Casaburi, da bastonate e pugni venne gettato in una tomba, mentre invano i frati chiedevano di poterlo almeno confessare.
Alla notizia del tumulto il Viceré mandò sul posto due dignitari: il consigliere Barracano e il giudice Giovanni Vallo contro i quali si rivoltarono i dimostranti.

I due e il loro seguito vista “la mala tela” si rifugiarono nel vicino Palazzo della Regia Zecca. I facinorosi ne trassero maggior coraggio. Storace, classico esempio di “testa di turcoera un uomo morto, trascinato fuori dalla tomba venne colpito con una “saglioccola” e trafitto con uno stocco.

Cominciò subito dopo la mattanza.

… lo trascinarono per tutte le strade principali della città, e di passo in passo li davano nuove ferite, e quei, che non portavano armi, con sassi sfogavano la loro rabbia sopra quel cadavere, talmente che era tutto polveroso, e pieno di sporchezze, che appena si conosceva, e non pur sazi di questo, per ogni contrada lo smembravano, tagliandoli il naso … li cavarono il cuore con le budella, e tagliarono un braccio, e una gamba, e tutte queste cose poi le portavano appiccate su le punte delle spade, e nelli bastoni, come trofei, e nelle mani tenevano parti delle sue cervelle, e pezzi delle budelle, dicendo a riguardanti volersele mangiare, chi arrostite e chi allesse, e li testicoli, e ciò sia detto con la debita vostra riverentia”.

La plebaglia trascinando il macabro troncone passò davanti al palazzo del Viceré gridando “Viva il Re Filippo e mora il mal governo.”

Don Pedro Tellez Giron, duca di Ossuna, Grande di Spagna, Viceré del Regno di Napoli piange sconvolto per la morte dell’amico, ha cinquemila soldati ma non muove un dito.

Don Pedro Tellez Giron, duca di Ossuna
Un ritratto del viceré Don Pedro Tellez Giron, duca di Ossuna

Il saccheggio della casa di Storace

La folla eccitata prese d’assalto la ricca casa dell’Eletto alla Selleria, la saccheggiò, tentò di incendiarla, alcuni borghesi si interposero cercando di riportare una parvenza di calma. Accorse il Reggente della Vicaria a cui uno dei saccheggiatori venuto a lite con un altro per la divisione del bottino ingenuamente si rivolse: “Signore, fateci giustizia, che costui non mi vuole dare la parte mia” avendone in gelida risposta “che quel non era tempo, ma che gli l’havaria fatta in altro loco”, parole che ricorderà sulla forca.
Un gruppo di nobili cavalcò per la città per calmare la plebe. Fra essi vi erano i migliori nomi dell’aristocrazia cittadina, Cesare d’Avalos, Gianfrancesco di Sangro duca di Torremaggiore, Alfonso Carafa duca di Nocera, Giambattista Spinelli duca di Castrovillari, ma sono i Gesuiti che pongono fine al saccheggio.

Dal vicino Collegio Massimo al Gesù Vecchio uscirono in processione e “con buone parole” allontanarono i saccheggiatori, ma ormai dalla casa “le robbe furono rubbate del valore di ottomila scudi e più.
Quello che restava del corpo dell’Eletto venne abbandonato nei pressi di una cappella dedicata a San Giovanni Battista alla piazza della Marina del Vino.

Gentiluomini pietosi composero le membra in una sporta acquistandone pezzi da uomini che li agitavano.
Conclude il cronista:

in tanto che l’infelice Gio Vincenzo Storace fu lapidato, ferito, trafitto, tagliato, smembrato, e trascinato, e le sue carni a pezzi vendute, con tant’odio, e sdegno, e con tanta sicurtà, e libertà, come s’egli stato fusse crudelissimo turco o giudeo”.

Il napoletano estro poetico di uno sconosciuto concittadino non risparmiò “L’acerba e crudele morte di Gio.Vincenzo Starace Eletto del fedelissimo popolo di Napoli con molte altre cose accadute dal mese di maggio 1585” come intitolava Gio.Antonio Summonte il capitolo dedicato all’evento nella sua Historia della Citta e del Regno di Napoli, In ricchezza e onori Starace crebbe tra il volgo e il volgo irato un dì l’estinse, che a danno suo ferri, aste e sassi strinse, morto non ha sepolto e vivo l’ebbe.

popolo napoletano in rivolta cerquozzi
Il popolo napoletano in rivolta, Michelangelo Cerquozzi, Roma

Il Viceré non si oppose al massacro

Per la prima volta nella storia del Viceregno la plebe osò assalire e massacrare un esponente del potere senza opposizione.

Eppure molti ricordavano ancora la reazione del Reggente della Vicaria che nel 1533 arrestato un certo Fucillo di Micone di mestiere vinaio che aveva organizzato un moto popolare, alle richieste della plebe ammassata sotto il Palazzo della Vicaria che ne reclamava a gran voce la liberazione, aveva risposto facendolo precipitare sulla gente con una corda al collo da una finestra del terzo piano.
La notizia dell’accaduto si sparse rapidamente, le botteghe si chiusero, i portoni dei palazzi vennero barricati, corsero voci allarmanti sui fuoriusciti [banditi] che stavano per irrompere nella città di cui si chiusero le porte, moltissimi l’abbandonarono. Per le strade comparvero cartelli che incitavano alla rivolta “O popolo storduto, hai incominciato e non hai fenuto”, “Al dì del Corpo di Christo, ogni omo sia listo, al dì del Santo Joanne ogni homo lassa la panella et piglia l’arme”, “Popolo diamo fine a quello che habbiamo principiato, et se il Viceré anderà in collera che si apparta con li suoi spagnoli”.
L’inerzia del Viceré fu tartufescamente giustificata: “Savio et accorto Principe si risolvè all’improvviso di non fare, né fare in quell’ora dimostrazione alcuna”. Il Capaccio, che però scrisse molti anni dopo, è di idee diverse:

Si brutta gente e così povera
tal hor parea che guerreggiar dovessero
come ranocchie oppur lumache in favola
eppur con apparato di tragedia
tanto timor e tanto terror diedero
che fero anche tremar i cuori eroici
e le bombarde che i gran tuoni imitano
e gli acciai forbiti e i ferri splendidi
non hebber voce e diventorno pallidi.

Le autorità corsero ai ripari: il peso del pane fu nuovamente aumentato e da tutto il Regno fu incettato grano, si presero misure contro i bottegai che vendevano vino andato a male, si chiuse l’università per evitare disordini, le processioni si susseguirono, si nominò il nuovo Eletto del Popolo nella persona di Orazio Palomba il quale per paura si nascose tre giorni e accettò la carica solo quando il Viceré lo minacciò di pesanti pene.

Micco Spadaro
Uccisione di Giuseppe Carafa, Micco Spadaro

Le cause del tumulto popolare

A lungo si discusse sulle cause del tumulto. Il linciaggio venne indubbiamente compiuto dalla plebemolti gridazzari rivoltosi e scandalosi capipopoli” avidi di “ritrovare il pane nelle case dei ricchi e dove ne havesse potuto trovare”.

La qualità della gente” così venne descritta dall’ambasciatore venezianoLa maggior parte bravi che qui chiamano compagnoni, gente bassa, lavoranti di bottega e alcuni pochi del popolo ricco”. Alle spalle vi erano alcuni borghesi del Seggio del Popolo che invidiavano a Storace ricchezza e carriera politica “Imperocchè non è alcun dubbio, che ad un uomo popolare, il quale governi o maneggi gli affari del pubblico, niuna cosa è di maggior periglio, che il mostrarsi dissimile dagli altri con la prattica de’ grandi” facendo riferimento a “troppa gran dimestichezza con il Duca di Ossuna”.

L’Eletto si era comportato nella sua carica con grande severità nei confronti dei bottegai che frodavano sul peso e sulla merce condannandoli duramente.

Nessuno intervenne in sua difesa “e se i mascalzoni solo, e non i veri Napoletani l’uccisero, cotanti cittadini di pari, o maggior numero, che v’erano perché non lo difesero?”.
In verità Giovan Vincenzo Storace Eletto del Popolo fu massacrato come un agnello sacrificale in uno dei tanti tumultisenza capo e senza coda” come Croce definì quello di Masaniello, da un insieme di circostanze, dalla viltà del Viceré, dall’eterna inutile furia della plebe, dal rancore di una parte della borghesia.

Dal massacro nacque il verbo “Starracciare”

La crudele morte e lo scempio del cadavere daranno origine a un verbo “starraciare” che per moltissimi anni significò massacrare, fare a pezzi. “Mo te starraceo” era la minaccia che si proferiva nel corso di una rissa, evento non infrequente nella violenta società dell’epoca.
Nel ricordo dei posteri Storace ebbe uno strano destino. Per lunghi anni si discettò se il suo cognome fosse Storace o Starace e nell’uno o nell’altro modo fu chiamato dai cronisti dell’epoca e dagli storici successivi fino a quando il rinvenimento di un documento a sua firma chiarì il piccolo enigma.

Piazza Mercato in rivolta
Rivolta a Piazza Mercato

La repressione del popolo

All’arrivo di quaranta galee che nel mese di luglio sbarcarono numerosi reparti di fanteria spagnola scattò la repressione.
Il Viceré, rimessosi dallo spavento, nominò un tribunale speciale, la Giunta di Stato, composta da Annibale Mores, Antonio Cadena, Giovanni Antonio Lanario, Ferrante Fornaro e Girolamo Olcignano che con amplissimi poteri giudicò in unico grado i rivoltosi.

Furono arrestate in quattro notti circa cinquecento persone, altre trecento fuggirono dalla città. In tre mesi, lavorando a ritmi intensissimi, furono sentiti 1.500 testimoni, i processi si chiusero con pene durissime: 36 condannati a morte, 18 all’ergastolo, 40 a pene varie, 300 banditi dal Regno, altri sottoposti a fustigazione pubblica.

Le esecuzioni cominciarono il 24 luglio e terminarono a novembre.

Il primo agosto venne disposto l’arresto di Giovan Leonardo Pisano, decurione del Seggio del Popolo, speziale di medicina con bottega in piazza Selleria, fratello del celebre medico Giovan Antonio Pisano professore di medicina nell’università di Napoli.

Uomo tumultuoso e capo di fazione popolare” era considerato uno degli autori del complotto contro l’Eletto ma da tempo si era messo in salvo rifugiandosi a Venezia dove morì alcuni anni dopo.

La sua casa alla Chiavica della Selleria (sita all’incirca nel luogo ove si trova piazza Nicola Amore) fu demolita, narrano le cronache, da muratori assoldati nel largo di San Lorenzo ove in genere sostavano in attesa di lavoro.

Su di essa furono gettati due tomoli di sale mentre il Trombetta della Vicaria gridava “Questo si fa per ordine di S.E. per causa di ribellione”.
I cortei che portavano alla morte i massacratori di Storace sfilarono per la via degli Armieri ove la folla si era armata, davanti al Palazzo del Viceré e al convento di Sant’Agostino alla Zecca ove per molti avvenne il taglio della mano, per la Vicaria e il Lavinaio per arrivare alla piazza del Mercato, la piazza della morte.
Alcuni condannati gridavano in preda alla disperazione “Mo’ haviti pane et vino: non parlate e noi andiamo a morire”.

Le esecuzioni cominciarono il 27 luglio con otto condannati e continuarono fino al 13 novembre. Tra essi vi era un vecchio di 65 anni il quale si dice che fosse il primo che diede un buffettone allo Storace”. Francesco Franco di anni 70, in precedenza fatto arrestare dall’Eletto perché non dava “il giusto peso di maccheroni, fu “tenagliato, appiccato e poi squartato”. Il cadavere del figlio di madama Bianca “vermicellara a lo Pennino” che aveva strappato il cuore al povero Storace ed era morto di febbri a Montevergine ove si era rifugiato, fu riportato a Napoli e squartato.


La sete di vendetta del Viceré non si placò.

Monumento esecuzioni Storace
Il macabro monumento delle esecuzioni

Il monumento

Sul luogo ove sorgeva la casa di Gio.Leonardo Pisano si costruì un monumento in pietra alto 16 palmi nel quale furono sistemati in apposite nicchie chiuse da sbarre le teste e le mani di 24 giustiziati, altre furono sistemate sul cornicione, al centro vi era una lapide di marmo a memoria eterna del delitto.

Anno MDLXXXV
D. Pietro Giron Ossunae Duce
Inclito prorege Neapolis ita jubente
Johanni Leonardo Pisano ob seditionem
Sua opera conflatam atque
Homicidij depredataeque domus
Io Vincentii Staracis
Populi Decurionis auctori
Domus aversa disturbataque area sale conspersa
Bona publicata
Plerumque conreorum
Hoc saxo inflixa capita
Ipseque inter hostium
Patriae relatus Album

[Don Pedro Giron Duca di Ossuna, illustre viceré di Napoli, comandò che a Giovan Leonardo Pisano, per la ribellione da lui promossa e come autore dell’omicidio e del saccheggio della casa di Vincenzo Storace, decurione del popolo, fosse abbattuta e distrutta la casa, e l’area fosse cosparsa di sale, pubblicata la pena, e le teste della maggior parte dei complici fossero conficcate in questa pietra ed egli stesso posto nel’albo dei nemici della patria. Anno del Signore 1585].

Nacque la leggenda che di notte “Si è sentito dire che, per la città, corre un carro di fuoco, et uno homo a cavallo con torce negra, che esce dalla Vicaria et passa per detto loco dello epitaffio, et le teste gridano!”.

Dovranno passare dieci mesi prima che il Viceré, su insistenze del cardinale Annibale De Capua, arcivescovo di Napoli che scriveva “dove deve passare il giorno del Corpo di Christo la processione col Santissimo Sacramento, si vede una cosa così pagana fatta a modo di un reliquario nella più bella parte della strada”, ordinasse la rimozione del monumento.

E così la sera del 20 giugno 1586, nell’oscurità incipiente, alla luce di candele, una processione di frati oranti, seguiti da molti cittadini, portava alla sepoltura le membra dei massacratori dell’Eletto del Popolo Giovanni Vincenzo Storace.
Già il 4 dicembre 1585 il Re aveva concesso il perdonoa tutti quelli, li quali intervennero alla morte di Gio.Vincenzo Storace … considerando la qualità della gente, che commette il detto delitto, la semplicità, il numero e la bassezza loro, e il caso così repentino e impensatamente successo”.

Dall’indulto furono escluse 28 persone tra cui Gio. Leonardo Pisano, il figlio Francesco fuggito con il padre e Salvatore Casaburi del quale non si seppe più nulla.

Così si concluse una tragedia napoletana. Passeranno non molti anni e “nell’infinito mareggiare della storia” il nome di Gio.Vincenzo Storace sparirà per sempre.

-Emiliano Bonaiti

Riferimenti:
https://www.treccani.it/enciclopedia/giovan-vincenzo-starace_%28Dizionario-Biografico%29/

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