Il Processo Cuocolo fu un momento fondamentale della Storia criminale d’Italia. E probabilmente anche la chiave per capire come nacquero molti stereotipi che ancora oggi, purtroppo, caratterizzano i napoletani nell’immaginario pubblico.
Tutto cominciò con un “banalissimo” delitto a Via Nardones, tra Piazza del Plebiscito e Via Toledo, in cui persero la vita due coniugi dediti alla malavita: per le autorità fu la scusa per spazzare via l’intero Stato Maggiore dell’Onorata Società.
Tutto il processo fu un vero abominio del diritto: fra testimoni falsi, tentativi di corruzione, prove inquinate e copertura mediatica oltre i limiti dell’ossessione. Fu infatti anche il primo “processo-spettacolo“ che fece appassionare l’Europa e l’America, mettendo in seria difficoltà la politica italiana.
Possiamo dire anche che, proprio con la sregolata pubblicità del Processo Cuocolo, nacque quel drammatico binomio “Napoli-criminalità” che ancora oggi ci perseguita nei luoghi comuni.
Un delitto senza risposta
Il 6 Giugno 1906 fu trovata la signora Maria Cutinelli senza vita nella sua casa di Via Nardones: il suo cadavere era ancora immerso in una pozza di sangue, accoltellata e con il cranio fracassato da un colpo di pistola.
Cutinelli era moglie di tale Gennaro Cuocolo, che inizialmente fu ritenuto autore del delitto. Poi, poche ore dopo, anche Cuocolo fu ritrovato senza vita, ma a Cupa Calastro, nei pressi di Torre del Greco. Il suo corpo era dilaniato da oltre quaranta coltellate e le ossa rotte da un precedente pestaggio a bastonate. Per giunta, si scoprì che l’arma per accoltellare i coniugi era stata la stessa.
Entrambi non erano stinchi di santo: pur facendo parte della borghesia napoletana, entrambi erano eccellenti basisti per furti d’appartamento: entravano come ospiti in case ricche e comunicavano poi cosa rubare a bande di ladri. Lei, inoltre, era un’ex prostituta che conservava numerose amicizie nell’Onorata Società, mentre Don Gennaro era sospettato di “infamità” dai camorristi, dato che era in contatto con alcuni poliziotti.
All’epoca la cronaca nera di Napoli era piena di omicidi senza colpevoli, spesso frutto di regolamenti di conti fra malavitosi. La polizia avviò così le indagini senza tante speranze finché, seguendo la pista dei testimoni, si scoprì che, proprio nella sera del 5 giugno, mentre si consumava l’omicidio, stavano banchettando nella trattoria di Mimì a Mare vicino alla spiaggia di Cupa Calastro una serie di personaggi molto noti nel mondo della malavita: Enrico Alfano, il probabile capo della Società, il professore Gennaro Rapi, il negoziante Gennaro Ibello ed il cocchiere Giovanni Iacovitti.
Una strana combriccola di malfattori già noti alle forze dell’ordine e borghesi dalle attività poco pulite che festeggiava a pochi passi dalla spiaggia in cui fu consumato l’omicidio Cuocolo: bastò questo per far scattare gli arresti cautelari prima del processo.
Nessun allarme: era un “ordinario” regolamento di conti. Tutti scarcerati.
Pochi giorni dopo, però, giunse a casa del Giudice Istruttore un prete notoriamente vicino agli ambienti della Bella Società, tale don Ciro Vittozzi, che affermò di conoscere nome e cognome degli assassini: Tommaso de Angelis e Gaetano Amodeo, che erano due ladruncoli d’appartamento.
Arrivarono conferme da altri testimoni che si presentarono autonomamente ai poliziotti: De Angelis e Amodeo erano stati complici di Cuocolo in un furto di diversi anni precedente ma, una volta consegnata la refurtiva al basista, Cuocolo si rifiutò di consegnare lo “sbruffo” (la percentuale del maltolto che spettava al ladro) agli autori materiali del reato, anzi, riuscì ad incastrare Amodeo e lo fece finire in carcere.
Il caso sembrava così risolto. Il giudice Ciccaglione ritenne che era un “comune” episodio di vendetta privata fra criminali che, usciti dal carcere, avevano ucciso il traditore che non aveva voluto pagarli. Tutti furono quindi scarcerati per insufficienza di prove.
Qualcuno vuole la testa dei camorristi
La retata della polizia e la cattura di Enrico Alfano, noto capocamorra, destarono comunque scalpore nell’opinione pubblica napoletana. Per giunta giornali come Il Mattino cavalcarono l’onda di una tensione collettiva destinata a raggiungere i livelli dell’isteria: l’opinione pubblica di Napoli “scopriva” ipocritamente la Camorra. E se ne indignava, con ancora maggiore ipocrisia.
Nel frattempo, da Roma, arrivavano sollecitazioni per sfruttare l’occasione del delitto e sferrare un colpo esemplare alla criminalità napoletana.
Pare che la richiesta di ricominciare le indagini sul delitto Cuocolo fosse stata sollecitata dal cugino di Vittorio Emanuele III in persona, il duca Emanuele Filiberto di Savoia, che risiedeva nella reggia di Capodimonte e mal tollerava la presenza nell’alta società di camorristi e plebei arricchiti.
La posta era alta, le possibilità di far carriera altissime. Fu così che scese in campo il capitano dei Carabinieri Carlo Fabroni: trentadue anni, ambizioso e grande studioso di storia criminale. Voleva diventare il primo paladino anticamorra della Storia.
Arrivano i Carabinieri
Non mancò nemmeno l’atto simbolico: nel 1911, anno in cui si definì il processo Cuocolo, si festeggiava il primo cinquantennio dell’Unità d’Italia.
Fabroni partì all’assalto e chiese la riapertura del caso Cuocolo, archiviato per insufficienza di prove: ci fu subito uno scontro con il questore Ballanti, accusato di aver influenzato i giudici nella chiusura del procedimento.
Il carabiniere arrivò addirittura ad attaccare la questura di Napoli, affermando che era in stretti rapporti con la Camorra: quella del carabiniere fu una sciabolata mai vista fra due istituzioni dello Stato.
I Cosacchi dei Carabinieri: le prime operazioni sotto copertura
Il capitano dei Carabinieri non perse tempo e si fece assistere da un manipolo di uomini fidatissimi guidati dal maresciallo Erminio Capezzuti, che chiamò “i cosacchi”.
Compito di questa squadra speciale dei Carabinieri era eseguire operazioni sotto copertura ante litteram, cercando quanti più indizi possibili sull’esistenza di una struttura criminale e sui personaggi della Camorra, cercando di ingraziarsi gli esponenti della malavita napoletana.
Diverse fonti riportano che i carabinieri infiltrati furono costretti a compiere le azioni più abbiette, da grassazioni a furti in appartamento, passando per sfide di coraggio con camorristi ed addirittura pestaggi ed esecuzioni.
Questo bastò però per ottenere i primi risultati, con una vera e propria retata compiuta tra il 2 e il 3 febbraio 1907 ai danni di trenta criminali arrestati in flagrante.
Furono subito sottoposti interrogatorio -a detta degli stessi con torture inumane– per estorcere informazioni utili ai fini delle indagini nel processo Cuocolo.
Fu proprio così che i Carabinieri entrarono in contatto con Gennaro Abbatemaggio, un giovane di 23 anni dalla lingua lunga, che era incarcerato a Santa Maria Capua Vetere.
Abbatemaggio, il finto “camorrista pentito”
Abbatemaggio era un cocchiere, categoria strettamente legata all’Onorata Società, ed era conosciuto per essere un gran fanfarone: fu subito interrogato da Capezzuti e, dopo le prime parole incerte e mezze confessioni, si convinse ad aiutare i Carabinieri diventando il primo collaboratore di giustizia della Storia, in cambio di una scarcerazione anticipata.
Fabroni aveva trovato la sua gallina dalle uova d’oro. Abbatemaggio raccontò con le sue testimonianze l’intera struttura dell’Onorata Società, facendo nomi e cognomi di capi, subalterni e manovalanza: ci saranno 48 imputati per l’omicidio Cuocolo, fra cui anche Errico Alfano, Ciro Vittozzi e tutti gli ospiti del banchetto di quella notte a Torre del Greco.
Secondo Abbatemaggio, l’omicidio dei coniugi Cuocolo fu ordinato da un presunto Tribunale della Camorra per evitare che l’infame andasse a riferire alla polizia le attività di usura e di bisca clandestina gestite da Giovanni Rapi. Non dimentichiamo che il circolo monarchico “Vittorio Emanuele II” gestito da Rapi era frequentato dai personaggi più in vista di Napoli, ma anche da camorristi (era frequentato anche dal’ex presidente del consiglio Tittoni, che fu anche prefetto di Napoli).
Bisognava andare avanti a tutti i costi
Famoso fu il “trucco dell’anello”: sulla base dei racconti di Abbatemaggio, fu rinvenuto dai Carabinieri un anello con le iniziali “G.C.” nella casa del presunto omicida dei Cuocolo, durante una perquisizione in cui erano assenti magistrati ed avvocati. Fu quell’anello, palesemente una prova falsa, ad essere poi utilizzato come pretesto per giustificare i rapporti fra il basista assassinato ed i camorristi portati in giudizio.
Non si salvò nemmeno la polizia di Stato, con diversi agenti portati in giudizio dai Carabinieri perché “collusi con la Camorra”: i poliziotti imputati furono tutti assolti per insufficienza di prove.
Molti giornalisti importanti, come Alessandro Lioy, attaccarono con veemenza i metodi illegali di Fabroni nella costruzione delle prove. Anche il PM, lo stimatissimo Leopoldo Lucchesi Palli, chiese l’archiviazione perché tutte le prove raccolte erano inutilizzabili. Di tutta risposta fu ricusato perché lontanamente imparentato con uno dei testimoni.
Fu infatti emblematico l’annuncio di Fabroni, che promise “l’arresto di almeno 500 camorristi” in una sua intervista sul Mattino. Tutto nato da un “banale” omicidio.
Insomma, questo processo Cuocolo si doveva fare a tutti i costi: lo Stato intero si giocava la sua credibilità politica, la notizia era rimbalzata su tutti i giornali d’Europa e il popolo chiedeva sangue.
Con un processo regolare si rischiava di mostrare al mondo un maggiore dei Carabinieri in pieno delirio di onnipotenza e vedere uno Stato ridicolizzato da tutti gli imputati assolti per insufficienza di prove.
Lo capì bene Enrico Alfano, che, in odore di guai, fuggì in America per farsi accogliere dalla neonata Camorra d’oltreoceano, ma fu presto riconsegnato nelle mani della giustizia italiana.
Erano tutti compromessi: si dovevano rompere le ossa alla Camorra, a costo di giocare più sporco dei criminali.
Il processo di Viterbo
Napoli era un inferno. Questura e Carabinieri litigavano, la politica cercava proclami facili e i giornali sguazzavano nella lotta fra le istituzioni.
Fu dichiarato il legittimo sospetto e il processo fu spostato alla Corte di Assise di Viterbo.
La cronaca locale raccontò con stupore e meraviglia l’arrivo del treno da Napoli con i condannati ed ancora maggior stupore ci fu nel vedere, per i quasi due anni di processo, la città di Viterbo occupata da un viavai di cronisti, giuristi, politici e giornalisti da ogni parte del mondo, tanto “da trasformare Viterbo popolosa come una località balneare”, disse La Tribuna Illustrata del 22 maggio 1911.
La piccola città della Tuscia, però, fu profondamente scossa dal polverone scatenato in città: cominciarono episodi di violenza contro i meridionali e contro i giornalisti, creando un odio verso i “criminali napoletani“ che durò per decenni anche dopo la fine del processo.
Nel frattempo, il Mattino si assicurò una copertura mediatica colossale, con aggiornamenti cinematografici ed approfondimenti scritti a cadenza quotidiana: una operazione massmediatica senza precedenti, se si considera che l’anno era il 1912.
Lo spettacolo di Carlo Fabroni
Il processo si svolse lentamente e con difficoltà, con i giudici che furono chiamati ad ascoltare e selezionare centinaia di testimonianze, spesso contraddittorie e conflittuali fra loro. E poi arrivò Fabroni, che riuscì a conquistare l’ennesimo record personale: la sua sola testimonianza fu divisa in 67 udienze e 530 pagine di verbale. Non furono da meno gli avvocati difensori, con arringhe durate dal 21 febbraio 1912 al 3 luglio.
La deposizione di Fabbroni fu però un vero spettacolo mediatico, con aneddoti coloriti, parole di tuono ed invettive contro la Camorra, la politica, i magistrati, la questura e la polizia: chiunque lo contraddicesse era automaticamente additato come camorrista.
Una condanna che fu una sconfitta
La pena complessiva ai camorristi fu di tre secoli e mezzo da scontare nelle patrie galere, con Alfano, Rapi, Di Gennaro condannati a trent’anni di reclusione, Abbatemaggio a soli cinque anni per aver partecipato all’associazione a delinquere: lo Stato spazzò via l’intero “Stato Maggiore” della Bella Società.
Il processo di Viterbo durò nella fase dibattimentale ben 12 mesi divisi in 197 udienze e quattro anni di fase istruttoria. La sentenza fu letta il 12 luglio 1912 e, mentre il giudice stava enunciando le condanne, si suicidò in aula uno degli imputati, Gennaro De Marinis.
I dati, indicati sul Mattino del 1912, indicarono anche la mole di documenti processuali: trentamila fogli scritti dal povero cancelliere Valentino Cesaretti, che contenevano le deposizioni di ben 587 testimoni e nove periti. In totale, allo Stato il processo costò l’incredibile cifra di due milioni di lire (pari a circa 80 milioni di euro attuali).
A nulla valsero i numerosi ricorsi dei condannati: fu più fortunato Giovanni Rapi, assolto nel 1913 in appello per l’accusa di ricettazione, con la sentenza che confermò Abbatemaggio quale “provato simulatore che seppe ingannare i giudici in tanti processi; immorale e bugiardo fin da giovinetto al punto che per evitare la responsabilità di un furto da lui commesso permette che siano processati non solo la sua amante, ma financo i suoi genitori”.
Si trattò di un evento dalle dimensioni senza precedenti: lo Stato, spogliandosi quindi di ogni garanzia conquistata negli ultimi trecento anni di pensiero illuminista, decise di scendere sullo stesso illegale campo della criminalità organizzata, spazzando via la sua struttura con la forza devastante della repressione penale.
Napoli-Camorra. Le conseguenze del Processo Cuocolo
Il più grande insegnamento tratto dal processo Cuocolo fu però la centralità del ruolo dei mass-media nel formare e guidare una opinione collettiva, anticipando di cent’anni una delle tematiche cruciali del Terzo Millennio.
Furono infatti i giornali e le prime -mute- coperture cinematografiche, a creare una vera e propria montatura mediatica attorno al tema criminale napoletano, con conseguenze sociali imprevedibili per il secolo passato: prima su tutte fu la definitiva consacrazione del binomio Napoli-Camorra, così come testimonia proprio un film chiamato “Nella Camorra, scene di malavita napoletana” menzionato dalla stampa dell’epoca e mai giunto ai giorni nostri, un lungometraggio muto girato nel 1911-1912 da una casa cinematografica torinese. Il lungometraggio fu fortemente criticato in un giornale di cinema contemporaneo, poiché il film insinuava che a Napoli i problemi si risolvessero solo con la malavita.
Anche il New York Times titolava, il 1° aprile del 1911,
“This was Alfano’s day – Enrico Alfano, alias “Erricone”, the reputed head of the most mostrous criminal organization on earth”
(“questo è stato il giorno di Alfano, alias Erricone, il rinomato capo della più mostruosa organizzazione criminale sulla Terra”)
Il processo Cuocolo diede origine ad una travolgente fioritura di opere sulla Camorra e sulla delinquenza napoletana in ogni parte d’Italia. Entrò così nel vocabolario comune l’espressione “far camorra” o “camorrismi” per indicare gli atti di prepotenza e prevaricazione, estendendo all’Italia intera una terminologia che nemmeno in Campania esisteva.
Oltretutto, l’appeal della parola Camorra raggiunse nel processo di Viterbo livelli a dir poco stellari: negli articoli dei giornali italiani ogni reato commesso a Napoli diventò improvvisamente associato all’Onorata Società.
Un colpo di scena: erano tutte bugie
Quindici anni dopo le condanne di Viterbo, il colpo di scena: l’anno era il 1927 e Gennaro Abbatemaggio ritrattò tutte le sue deposizioni in una lettera.
Era tutto falso.
Il famoso anello che avrebbe dovuto legare Cuocolo ai camorristi condannati era stato commissionato diverso tempo dopo la morte del basista, precisamente costò “38 lire”. Allo stesso modo, i Carabinieri, tramite Fabroni, pagarono 15mila lire al Cocchiere.
Anche Scarfoglio percepì 40.000 lire per far schierare il Mattino e la stampa napoletana a favore del partito colpevolista.
Fu quindi richiesta la revisione della sentenza del processo Cuocolo, che non arrivò mai, da un lato perché molti dei condannati erano allora già morti, dall’altro perché una revisione postuma di quel processo tanto complesso e tanto sofferto avrebbe riaperto una grande ferita nell’opinione pubblica, oltre a gettare grande discredito su tutta la categoria dei Carabinieri. Si risolse nel modo più italiano possibile: Mussolini graziò i condannati senza sollevare alcun polverone.
Curiosamente, poi, i due protagonisti del processo Cuocolo morirono in modo singolare: Fabbroni morì pochi anni dopo il processo per idrofobia ed il questore Ballanti si suicidò. Abbatemaggio visse invece fino al 1967.
Non pago della fama conquistata, era ormai anziano, ma affermò anche di essere in possesso di notizie “sconcertanti” sul caso Montesi, che riguardava una ragazza misteriosamente morta sulla spiaggia di Torvaianica nel 1953. Fu però l’ultimo delirio di protagonismo di Abbatemaggio, anche se successive ricerche hanno trovato cartelle cliniche in cui lui stesso richiedeva esplicitamente ricoveri in ospedale “per pazzia”, per evitare ripercussioni personali dovute alle sue solite “rivelazioni”.
-Federico Quagliuolo
Riferimenti:
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Nigel Cawthorne, The Mammoth Book of the Mafia, C&R Crime, Londra, 2009
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Eugenio Guarino, Il processo cuocolo, malavita e connivenze politiche nella Napoli del 1906, Stamperia del Valentino, Napoli, 2013
Livio Guidotti, Il processo Cuocolo, Editore Curcio, Milano, 1950
Arturo Labriola, I misteri di Napoli e la leggenda della Camorra, Società editrice partenopea, Napoli, 1911
Marcella Marmo, la città camorrista e i suoi confini: dall’Unità al processo Cuocolo, Bollati Boringhieri, Torino, 2009
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Isaia Sales, La Camorra, le Camorre, Editori Riuniti, Roma, 1988
Roberto Marvasi, Così parlò Fabroni, Biblioteca La Scintilla, Roma, 1914
Romanzi:
Ferdinando Russo, Memorie di un ladro, Bideri, Napoli, 1971
Ernesto Serao, Le origini della Camorra (“il capo della Camorra), Centro Editoriale Meridionale, Napoli, 1978*
Giornali:
Il capitano Carlo Fabbroni, La Tribuna Illustrata del 22 maggio 1911
Il merito del Capitano Fabbroni, L’illustrazione italiana, 23 luglio 1911
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