Viaggiare cent’anni fa a Mulberry Street, nel cuore di Manhattan, non avrebbe portato sensazioni diverse da una passeggiata fra le strade di Forcella, nonostante l’ampiezza ben maggiore delle strade americane.
A New York c’era letteralmente una “piccola Napoli” raccolta in una strada, fatta di quasi 50.000 immigrati napoletani che speravano di poter cambiare la propria vita nel nuovo mondo.
Oltre ad aver lasciato un’infinità di cognomi campani fra gli americani, anche la strada ricorda le sue antiche origini: ancora oggi si celebra la festa di San Gennaro con un’enorme parata che porta tutto il quartiere in festa.
Tutto cominciò con uno dei periodi più bui per il popolo italiano.
Alle origini della grande emigrazione
La storia dell’emigrazione italiana nelle americhe è un racconto drammatico di famiglie spezzate e uomini disperati, rimasti senza lavoro e senza nemmeno il pane in un territorio economicamente depresso. Inizialmente era un fenomeno che caratterizzava esclusivamente il Nord Italia. Dopo l’Unità, precisamente partire dal 1880, anche i meridionali furono costretti a fuggire in una terra lontana nella speranza di trovare nuove opportunità in territori nuovi e inesplorati.
Fu chiamata “la prima grande emigrazione“, addirittura riconosciuta per legge nel 1888 e poi nel 1901, quando lo Stato italiano cercò di regolamentarla per fermare il mondo dell’illegalità che si nutriva delle disgrazie del popolo. Erano infatti tempi in cui fiorivano le tratte illegali non tanto differenti da quelli che caratterizzano i fenomeni migratori moderni: una volta giunti a Napoli, molti contadini poverissimi delle province erano facile preda di schiavisti, speculatori, papponi, truffatori che riuscivano facilmente a rubare tutti i risparmi di una vita, o magari li caricavano su barconi stracolmi di disperati che finivano per scaricare illegalmente migliaia di vite umane negli Stati Uniti. Altri ancora erano, a loro insaputa, “venduti” come schiavi ad impresari senza scrupoli nelle miniere del Nord o nelle piantagioni del Sud America.
Le campagne si impoverirono infatti in modo notevolissimo a causa della nuova tassazione imposta dal Regno d’Italia, che andò a sostituire la bassa pressione fiscale e la struttura amministrativa molto più permissiva del regno borbonico: il trapasso tra un regno e l’altro, che non fu guidato correttamente dagli economisti e da riforme politiche, come sottolineano Nitti, Scialoja e Fortunato, creò un’enorme depressione economica che fu alla base della fuga dalle campagne del Sud Italia.
Padula, la terra d’origine di Joe Petrosino, ha ad esempio dimezzato la sua popolazione dal 1881 al 1901.
Mulberry street, dai gelsi ai napoletani
Ed eccoci allora dall’altro lato dell’oceano, a Mulberry Street, chiamata così per la presenza di piante di gelso, ma anche per aver ospitato il primo colono italiano giunto a New York. Era il 1671 e Pietro Cesare Alberti, di origini venete, si stabilì da queste parti, proprio come testimonia una targa in granito piazzata all’incrocio fra la strada e Grand Street. All’epoca la città si chiamava ancora Nuova Amsterdam ed era poco più di un villaggio di coloni.
Due secoli dopo la scena era inimmaginabile per quei primi coloni olandesi: Mulberry Street fu letteralmente invasa da una comunità di emigranti provenienti da ogni parte della Campania, che si riunirono per creare un’aria di patria anche in un territorio lontano e ostile. Ci furono diverse altre “Little Italy” a New York: Haarlem, ad esempio, era uno dei quartieri più famosi, quello in cui si svolse la guerra fra Mafia e Camorra.
Se potessimo viaggiare indietro nel tempo, troveremmo la strada ricca di bancarelle cariche di ortaggi provenienti dall’Italia, carrettini ambulanti con venditori di pizze, graffette e . Un appartamento si poteva fittare per 10 dollari al mese (l’equivalente di circa 280 dollari attuali). Tutt’attorno a noi, un vociare fortissimo con accenti provenienti da ogni parte della Campania.
Il fenomeno migratorio era infatti tipico di tutte le province agricole della regione, mentre l’unica grande città che fu atrocemente colpita dalla fuga di cittadini fu Napoli.
Non solo disperati
Sui barconi per il Nuovo Mondo, però, non c’erano solamente disperati in cerca di lavoro. L’emigrazione italiana verso gli Stati Uniti fu infatti foriera di enormi opportunità per gli imprenditori e per gli avventurieri più spregiudicati, interessati a crearsi nuove vite per far grande quel continente lontano, che addirittura ha preso il suo nome da un Italiano.
Ci racconta il New York Times del 13 luglio 1915 che “a New York ci sono solo banchieri tedeschi e italiani“. Non è un caso se la prima filiale di una banca italiana aperta in terra statunitense fu uno sportello del Banco di Napoli nel 1906. Ne diventarono già 5 nel 1909.
Allo stesso modo, fiorirono anche le imprese che si occupavano dell’esportazione di prodotti italiani.
La festa di San Gennaro
La prima cosa che i napoletani portarono in America fu San Gennaro. Si racconta, ma non abbiamo testimonianze fotografiche, che a Mulberry Street era presente un piccolo tempio dedicato al protettore di Napoli già nel 1870. Quel che è certo è che, a partire dal 19 settembre 1926, gli emigranti sentirono il bisogno di festeggiare il proprio santo protettore nel modo più americano e spettacolare possibile: organizzando un vero e proprio carnevale.
La feast of San Gennaro dura infatti 11 giorni e, il 19 settembre, è caratterizzata da una parata con il busto del santo che attraversa tutto il quartiere. Tutt’attorno, poi, ci sono bancarelle di cibo da strada italiano, dai panzarotti ai cannoli, arrivando all’immancabile pizza a portafoglio. Senza dimenticare le enormi braciate di carne, che sono quel tocco americano che non può mai mancare anche nel cibo.
Oggi di queste infinite storie fra Napoli e gli Stati Uniti non c’è molto, se non le tante scritte del quartiere. La parte bassa di Manhattan ti accoglie ancora oggi con il suo caratteristico cartellone di Little Italy e Mulberry Street ha ristoranti e baretti dedicati ad ogni città italiana, fra cui anche un Caffè Napoli. Le vicinanze si stoppano qui: il quartiere è infatti finito per lo più fra le mani dei cinesi, mentre gli italiani sono andati a vivere in altre parti della città.
Quel che è certo è che, in una New York che è casa di tutto il mondo, c’è anche una strada che porta la memoria dei napoletani. Ed un nipote di quella Campania trapiantata in America è addirittura stato sindaco di New York, Bill de Blasio.
-Federico Quagliuolo
Riferimenti:
Francesco Saverio Nitti, L’Italia all’alba del XX Secolo
Emigranti ed emigrazione a Napoli tra la fine dell’Ottocento e la prima guerra mondiale. – A.S.E.I. (asei.eu)
San Gennaro (archive.org)
Arrivederci, Little Italy | The New Yorker
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