I Carafa sono stati una delle famiglie più importanti ed influenti della storia di Napoli e del Regno e con i loro intrecciati legami sono stati in grado di manterere stabile la loro posizione di potere per secoli. Tra questi, Diomede V, conte di Maddaloni, fu noto per il suo modo di essere spietato e vendicativo, diventando uno dei principali bersagli della Rivoluzione napoletana del 1647.
I Carafa: tra ricchezza e potere
Facenti parte di una famiglia molto numerosa, i Carafa ricoprivano ruoli in ogni settore che contasse al tempo, da quello militare a quello ecclesiastico e tra le loro fila si annoverano cardinali, duchi, conti e perfino un papa. Disponevano di un vasto patrimonio immobiliare, sia a Napoli che nei loro feudi, oltre che vasti appezzamenti di terreno in tutto il Regno di Napoli e moltissime persone lavoravano al loro servizio.
Sono sempre stati molto vicini alla monarchia, sin dai tempi di Alfonso il magnanimo, che era fiancheggiato da Diomede I Carafa, primo conte di Maddaloni. Alcuni membri della famiglia erano tristemente noti per i loro modi di fare dispotici e alquanto avversi al popolo di Napoli e dei loro stessi domini.
Diomede V: un carattere irruento
Diomede V Carafa, conte di Maddaloni e suo fratello Giuseppe sono tra gli esempi più lampnti di nobili ricchi e ostili nei riguardi dei ceti inferiori, noti per aver vessato gli abitanti dei loro domini con tasse elevate e soprusi di ogni tipo, senza che venissero perseguiti in alcun modo, data la posizione privilegiata.
Diomede, che “proteggeva scherani e banditi e dispotico e imperiosopassava sui vassalli”, come riporta lo storico Giacinto de Sivo, era molto vicino al re di Spagna Filippo IV e ai massimi esponenti della nobiltà del Regno, che supportava economicamente e militarmente.
Anche noto con il soprannome di “mustaccio”, per via dei folti baffi che portava, Diomede V era spavaldo, altezzoso e piuttosto collerico, non era nuovo a litigi, oltre che con popolani che per gerarchia non potevano rispondergli a tono, anche con membri più altolocati della società napoletana.
Per esempio, durante una processione in onore di San Gennaro, il 1646, il Conte ebbe un diverbio su chi dovesse trasportare le reliquie del santo con il cardinale Ascanio Filomarino: non ci pensò due volte e mise le mani addosso all’ecclesiastico per strappargli le reliquie.
Dopo che il cardinale, intontito per via dell’aggressione, fu portato al sicuro in un’abitazione perchè si riprendesse, Diomede V decise di andargli a far visita per scusarsi, ma Filomarino non volle incontrarlo. Così, il conte di Maddaloni, adirato, pare che abbia esclamato che il suo era un gesto da vero gentiluomo e che il cardinale, essendo nato da una lavandaia, non potesse capire il comportamento dei cavalieri.
Proprio come Diomede, anche Giuseppe non era famoso per la sua gentilezza. Pare, infatti, che tra le sue malefatte, abbia malmenato e mandato via senza paga più volte un pescivendolo che gli portava la merce al palazzo, Tommaso Aniello di Amalfi, che più tardi sarebbe stato noto con il nome di “Masaniello”.
La rivoluzione napoletana e la condanna a morte da Masaniello
Nel 1647, Diomede fu accusato, assieme al fratello Giuseppe, di aver fatto saltare in aria la nave ammiraglia della marina militare spagnola, che sarebbe dovuta partire per uno scontro con truppe francesi. Entrambi furono imprigionati in Castel Sant’Elmo, per ordine del vicerè in persona, con cui oltretutto avevano un pessimo rapporto. Sarebbero rimasti rinchiusi lì fino allo scoppiare della rivoluzione di Masaniello.
All’avvento del sanguinario periodo di tumulti della rivoluzione del 1647, in cui Masaniello ordinò ai suoi seguaci di assassinare nobili e incendiare le loro ricche dimore, a Diomede V venne in mente un piano per ripristinare l’ordine e aver salva la vita.
Infatti, egli notò che alcuni dei più fidati uomini di Masaniello erano banditi che, prima dei tumulti, erano stati al suo servizio, così chiese al vicerè di liberarlo, assicurandogli che avrebbe potuto porre fine alla rivolta. Il vicerè accettò senza esitazione.
La morte di Giuseppe Carafa
Entrambi i fratelli Carafa andarono in piazza del Mercato a parlare ai rivoltosi, sperando i riuscire a calmarli, ma non funzionò: furono entrambi fatti prigionieri.
Poco prima, tuttavia, Diomede V aveva preso segretamente accordi con due dei suoi banditi che ora erano tra le fila di Masaniello, che trasportarono i due nobili arrestati lontano dalla vista dei rivoltosi, nella chiesa del Carmine, dalla quale uscirono di soppiatto per poi fuggire lontano da lì.
Prima di andare via da Napoli, però, Diomede aveva preso accordo con i due banditi per assassinare Masaniello, ma fallirono e furono giustiziati per tradimento. Dopo questo evento, l’ira di Masaniello e del popolo si riversò su chiunque lavorasse per i Carafa o vi fosse imparentato, portando a una scia di omicidi e alla distruzione dei loro palazzi e dei loro averi.
I rivoltosi riuscirono ad intercettare una richiesta di aiuto da parte di Giuseppe Carafa al vicerè, scoprendo che si era rifugiato in un monastero. Fu individuato mentre tentava di scappare, segnalato da una donna che in un primo momento aveva accettato di ospitarlo.
Fu arrestato e decapitato da un macellaio, a cui una volta avrebbe imposto di baciargli i piedi. L’odio verso Giuseppe era tale che il cadavere fu trascinato in giro per la città e poi abbandonato in Rua Catalana. La sua testa fu posta su una picca e portata a Masaniello, che gli strappò i baffi. Infine, questa fu messa in una gabbia e affissa al portone del palazzo Carafa del quartiere Stella.
Ma la sede di vendetta di Masaniello non si era placata: mancava ancora il duca di Maddaloni, Diomede V, all’appello.
Masaniello in persona lo cercò ovunque per Napoli, proseguendo la scia di violenza e vandalismo. Pare che, entrando nei luoghi dove il conte aveva fatto nascondere i suoi averi, li distrusse a colpi di spada o dandogli fuoco e che abbia attaccato un pezzo di ritratto del duca di Maddaloni a ciò che restava del corpo del defunto fratello, con l’iscrizione “Questo è il duca di Maddaloni, ribelle di sua maestà e traditore del fedelissimo popolo“.
Non si risparmiò, inoltre, di rubare per sè e per sua moglie vestiti e gioielli di Diomede V.
Con il popolo sempre meno a suo favore, Masaniello fu ucciso poco dopo, con un trattamento simile a quello inflitto ai nemici del popolo da lui indicati.
Prima della fine della rivolta, il nuovo capopopolo eletto stabilì che il conte di Maddaloni e i discendenti di suo fratello sarebbero stati banditi da Napoli a vita “senza poter ottenere grazia da sua maestà cattolica“. Ma la rivolta si apprestava ad essere sedata, di lì a poco.
Il ritorno a Napoli
Dopo la morte di Masaniello, il conte di Maddaloni si organizzò con altri esponenti della nobiltà campana per sedare le rivolte a Capua, Aversa e Melito. Infine si rivolse in direzione Napoli, ma non riuscì subito a rientrare in città, poichè questa era completamente barricata e sulla sua testa ancora pendeva una taglia molto elevata, quindi attaccare da solo sarebbe stato un rischio troppo grande.
Una volta quietata la rivolta, dopo numerosi scontri, Diomede V rientrò finalmente a Napoli, nel 1650, non mostrando pietà per chi gli era stato nemico. Addirittura, riporta De Sivo, pare che fosse così furibondo da voler incidere con un coltello la scritta “Carafa” sulla fronte dei suoi oppositori, ma un gesto tanto rpiugnante gli fu impedito da altri due nobili napoletani che parteciparono al ripristino dell’ordine cittadino.
Dati gli ingenti danni subiti al suo palazzo, Diomede ne acquistò uno in via Toledo, l’attuale Palazzo Carafa di Maddaloni, precedentemente appartenuto ai d’Avalos, che il conte fece ristrutturare da Cosimo Fanzago. L’attuale ingresso è su via Maddaloni, parte della nota “Spaccanapoli“.
Gli ultimi anni di Diomede V
Poco tempo dopo la fine dei tumulti, al re di Spagna Filippo IV in persona giunsero numerosissime denunce da patre di sudditi sui comportamenti dispotici e crudeli di Diomede V, tra cui l’assassinio del medico Giovannangelo Lombardi, sindaco di Cerreto Sannita, uno dei territori del Conte: aveva anch’egli osato denunciare pubblicamente gli atteggiamenti di Diomede, che lo volle punire con la morte.
Non potendo rimanere impassibile di fronte a tanta sofferenza, il sovrano decise che Diomede V sarebbe stato mandato in esilio a Pamplona.
Tempo dopo, durante un soggiorno a Madrid, morì nel 1660, ben lontano dai suoi possedimenti. Il suo corpo fu riportato a Napoli, ma è andato perso al seguito di ristrutturazioni della chiesa in cui era tumulato.
-Leonardo Quagliuolo
Per approfondire:
“Storia di Galazia campana e di Maddaloni” di Giacinto de’Sivo
“Lo stato feudale dei Carafa di Maddaloni” F. Dandolo, G. Sabatini
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