Non voler invecchiare (e non saper invecchiare) è un problema antico ed è per questo che una vecchia “con i capelli radi e scarmigliati, la fronte rugosa e torva, le borse sotto gli occhi ingrossate e cadenti, gli occhi smorti e cisposi, la bocca sdentata e storta e poi una barba da capre, il petto peloso, i fianchi flaccidi, le braccia rattrappite, sciancata e zoppa e i piedi a papera” che abitava in un basso sotto il Palazzo Reale, provò a sedurre addirittura il Re che, curioso, ogni sera passava avanti alla porta di casa sua ad origliare i suoi discorsi, immaginando che sotto il suo palazzo dovesse vivere una fanciulla bellissima.
La vecchia scorticata, dopo aver notato questa abitudine del Re, provò ad ingannarlo: finse di essere una una dolce verginella desiderosa di incontrare l’uomo di notte, rigorosamente al buio. Il Re non si fece pregare: accettò l’invito, invitando la donna a prepararsi per la notte stessa.
Come una “volpe maestra, gattone vecchio, furba e imbrogliona”, la vecchia stirò tutte le grinze della sua pelle portandosele dietro la schiena e ne fece un nodo dietro alle spalle con un pezzo di spago, per concedersi al re che stava “con il fuoco nelle batterie e si lanciò come un cane nel letto”.
Fu una fortuna che proprio il re, “improfumato di muschio e zibetto”, non sentisse l’alito puzzolente della vecchia e “il tanfo di quella brutta cosa”.
Nel racconto che si fa sempre più hard e ricco di dettagli, il re, incautamente, toccò la schiena della vecchia, sciogliendo il nodo e venendo sommerso dalle rughe e dal grasso tenuti nascosti: “finì sul Mandracchio mentre si aspettava di andare a Posillipo e navigò su una vecchia carretta mentre si era illuso di volare su una galea fiorentina”.
Scoperta un’arpia invece di una ninfa, il re, disgustato, ordinò ai suoi servi di gettare la vecchia dal balcone della sua stanza, ma, nel volare giù, quell’orribile donna rimase appesa al ramo di un albero.
La vecchia, dimenandosi ed urlando, suscitò l’ilarità di 7 fate tristi che la ricompensarono per le risate, trasformandola nella giovane fanciulla più bella di Napoli.
Visto il prodigio, il Re salvò la stessa donna che poco prima voleva uccidere e, estasiato dalla sua bellezza, se la sposò.
La sorella maggiore della (non più) vecchia, venne a conoscenza della storia e, invidiosa della fortuna che era capitata alla ragazza, tanto che le “era pigliato il totano e aveva lo filatorio ‘n cuorpo” (la diarrea), le chiese insistentemente di rivelare quale fosse l’elisir di giovinezza che aveva bevuto, cosa avesse fatto per diventare così bella.
La ragazza, che ormai era diventata la regina, rispose in modo scostante ed infastidito: “me so’ scortecata, sora mia!“.
La sorella rimasta vecchia non ci pensò due volte: corse via e, dati 50 ducati ad un riluttante barbiere che “attaccò l’asino dove vuole il padrone”, chiese di essere scorticata viva, nella speranza di poter diventare anche lei moglie di un re.
E, tra mille sofferenze, ripeté fino a morire:” uh, chi bella vo’ parere, pena vo’ patere!“
Morale della favola: attenti all’invidia!
-Federico Quagliuolo
Riferimenti:
Giambattista Basile, Lo cunto de li cunti
Ugo Vuoso, Fiabe di mare e di terra, Imagaenaria, 2008
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