Sandor Marai visse a Napoli per lungo tempo.
Ci sono diversi modi e prospettive per osservare Napoli. La prima è sicuramente quella di un napoletano. Come una donna che si guarda allo specchio, Napoli, se riflessa negli occhi di un napoletano, non riesce mai ad apprezzarsi nel profondo. Al contrario, se ad osservare è uno sguardo super partes, maggiore è sicuramente l’oggettività con cui si guarda, ma allo stesso tempo si è soliti tendere ad approssimazioni banali.
Quando la prospettiva è quella di un esule, di un profugo viaggiatore, ciò che ne risulta è un meraviglioso quadro, in cui gli umili e le piccole persone, sia pure idealizzati, diventano fonte di un’ importante ispirazione.
Sándor Márai a Napoli
Questo esule della vita è il giornalista e scrittore ungherese Sándor Márai, fuggito dal suo paese, in quel tempo soggetto all’oppressione staliniana. Sándor si trasferì a Napoli nel 1948, dove vi rimase fino al 1952.
Quella dello scrittore è una prospettiva privilegiata. Osserva la Napoli del dopoguerra, da una dolcissima Posillipo, dove la famiglia Márai trascorse felicemente quegli anni. In uno di quei vicoli senza tempo, ci si può imbattere nella lapide dello scrittore. Ancora oggi si cerca nei volti della gente del posto, un segno, un tratto distintivo che riconduca agli umili di cui Márai parla nel suo capolavoro: “Il sangue di San Gennaro“. Si cerca lo spazzino, il venditore di uova o quello di noccioline. Si cerca la Napoli da cui Sándor si è lasciato ispirare. Questa città che tanto piace allo scrittore, nella realtà versa in una profonda condizione di miseria. Eppure Márai la immagina addolcita proprio nei suoi aspetti più semplici.
I miracoli
Napoli «è l’unico luogo dove possono ancora avvenire i miracoli».
Márai si lascia ammaliare dalla capacità dei napoletani di affidarsi totalmente ai miracoli. Capisce l’esigenza di questo popolo , non solo di aspettare un miracolo, ma addirittura di programmarlo. Come avviene per il miracolo del sangue di San Gennaro.
In un suo diario, Sandor Marai scrive :
«Napoli è la città della superstizione. Questa erbaccia in nessun altro posto abbonda così tanto, così copiosa e inestirpabile negli animi come nell’immaginazione dei napoletani. Dalla mattina alla sera la loro giornata è piena di superstizioni semplici e complicate. Hanno paura di tutto. E allo stesso tempo ridono di tutto ciò di cui hanno paura.»
L’erbaccia diventa così la forza stessa dei napoletani, uno scudo con cui difendersi proprio da quella miseria che Márai trasforma in leggerezza.
Nonostante questa città sia per lo scrittore, fonte inesauribile di vita, non riuscirà mai più ,né qui né altrove, a ritrovare la sua patria.
«Cominciammo a capire che quando si lascia una patria si lasciano tutte le patrie possibili»
Il libro rappresenta un presagio di quella che sarà la sua vita. Quest’uomo senza terra, senza patria, così come il protagonista del romanzo, si lascerà travolgere dall’infinito vortice del mondo fino a scegliere la via del suicidio.
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