“Il dovere di un giornale è stampare le notizie e scatenare l’Inferno.”

Wilbur Storey, noto giornalista americano, pronunciò questo imperativo nel lontano 1861. In quell’occasione, il suo obiettivo era quello di spronare i giornalisti di tutto il mondo alla ricerca della verità. E Giancarlo Siani seguì l’esempio alla grande.

Un giudizio cosi tagliente, di certo non poteva lasciar indifferenti le vie e gli angoli di una città come Napoli. E in particolar modo, in via Romaniello, questo grido si solleva ogni giorno, e ogni giorno sempre più forte, da trentun anni a questa parte.

Via Romaniello, a due passi da Piazza Leonardo, costituisce un luogo che per molti, napoletani e non, porta ancora l’odore di tristezza, di sogni infranti, di morte.

Qui le lancette del tempo sembrano essersi fermate a quella tragica sera del 23 settembre 1985, quando la collina del Vomero, e non solo, fu scossa all’improvviso dal suono sordo di dieci proiettili d’arma da fuoco, sparati alle spalle del giovane cronista de “Il Mattino”, Giancarlo Siani, sotto casa sua, decretando inevitabilmente la sua fine e, con lui, quella dei i suoi sogni.

Un ragazzo semplice, Giancarlo, figlio del Vomero come tanti altri della Napoli degli anni ’80; allegro, dalla faccia pulita, amante della pallavolo, con  una passione fissa: la scrittura.

Una passione che, unita alla sua insaziabile sete di conoscenza e curiosità, lo portò a scoprire scenari incredibili, legati alle sanguinosissime faide di Camorra; scenari che, a quel tempo, non solo era meglio che non venissero scoperti, ma che Giancarlo Siani con estremo coraggio decise di pubblicare sul giornale.

A detta di molti, Siani fu punito per le sue indagini scottanti relative agli affari tra clan locali e amministrazioni pubbliche, che egli conduceva come corrispondente di Torre Annunziata  per “Il Mattino di Napoli”.                      La scintilla che fece scoppiare l’incendio, però, si accese quando Giancarlo osò svelare il meccanismo con il quale le forze dell’ordine giunsero all’arresto del boss Valentino Gionta. Secondo il giovane giornalista, infatti, furono proprio i clan “Nuvoletta”, “Bardellino” e “Nuova Famiglia“, attraverso una soffiata, a rivelare alla polizia il nascondiglio di Gionta, rompendo di fatto il codice d’onore della mafia e divenendo, così, degli “infami” agli occhi degli altri clan.

Un disonore troppo grande da sopportare.

Da due anni a questa parte, però, in via Romaniello aleggia un’aria diversa, nuova. Un’aria di rivalsa e di giustizia.

Le famose lancette hanno ripreso a correre e ora nessuno riesce più a fermarle.

Il motivo è dato da un meraviglioso murale di trentotto metri, che corre tutto lungo il muro della tragedia. Un capolavoro tinteggiato di due sole tonalità: quella del grigio, che rappresenta il colore della carta stampata e delle fotografie degli anni ’80; e quella del verde, che rappresenta il benessere, la fertilità, la giustizia come rivalsa di questa storia. L’opera è suddivisa in ventisei frames, tanti quanti i suoi anni; piccoli racconti che partono da un Giancarlo più giovane, che lungo il muro percorre la sua vita, fino a giungere all’ultima immagine del racconto, quella che raffigura la sua storica Mehari verde, la compagna di una vita, dalla quale Giancarlo non se ne distaccava neanche per un secondo, neanche in quella tragica sera di fine settembre.

La vernice utilizzata è quasi fantascientifica; prende il nome di “Airlite“, una sostanza naturale al 100%, che attraverso un processo simile a quello della fotosintesi, fa sì che il muro assorba fattori inquinanti, ripulendo l’aria circostante.

Il tutto è cosparso di citazioni, soprattutto versi della canzone “Basta poco” di Vasco Rossi, il cantautore amato da Giancarlo, ma anche  frasi di Alda Merini, Wilbur Storey, Alex de Tocqueville, etc.

Il merito di questo cambiamento, va ad ex amici e amiche di Giancarlo, che grazie all’associazione “Inward, osservatorio sulla creatività urbana” e al duo artisico “Orticanoodles”,  sono riusciti  a dare nuova vita, lì dove si è fermata quella di Giancarlo.

È come se mio fratello tornasse a rivivere dove è stato per 26 anni. Questo muro che sa e ha visto tutto, non raccontava niente fino a qualche giorno fa. Ora prende vita e restituisce a Giancarlo quello che gli è stato tolto“.

Queste sono state le prime parole del fratello, Paolo Siani, nel giorno dell’inaugurazione del capolavoro.

Affermare che Giancarlo viva ancora tra noi, non è banale retorica. Ma è una certezza. Ogni giorno, infatti, in tanti, ogni qualvolta si trovino a passare per quella via, si fermano per un momento, ricordano la sua storia, gli ideali per cui ha combattuto. Ideali che non sono stati assolutamente dimenticati, ma che vivono insieme a lui, nelle nuove  generazioni, i giovani, che ogni giorno scelgono il coraggio di Giancarlo, la sua determinazione, la sua sete di verità, come modello di vita.

-Andrea Andolfi

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