La Stazione Museo della linea 1 unisce attraverso una artistica galleria l’antico e il moderno. Ci troviamo a Piazza Cavour, incastonata tra il Museo Archeologico Nazionale e la famosa Via Foria, spartiacque tra i rioni Sanità e San Lorenzo. Siamo davvero nel ventre di Napoli.
La stazione è stata inaugurata nell’Aprile del 2001 ed il progetto dell’architetto Gae Aulenti ha interessato non soltanto il sottosuolo, ma l’intera zona soprastante. La lunga e stretta porzione di giardini, che già caratterizzava la piazza, è stata infatti allestita con edifici in rosso pompeiano, in armonia con i colori del vicino Museo Archeologico. Per l’interno, invece, si è optato per linee semplici e dinamiche, ordinate. A vincere su tutto è la assoluta prevalenza del bianco, incorniciato da dettagli neri.
Prima stanza della Stazione Museo: il Laocoonte
Entrando dall’ingresso superiore, esattamente quello al di sotto del Museo, siamo accolti da una riproduzione in bronzo di uno dei più famosi gruppi marmorei donatoci dall’antichità: il Laocoonte e i suoi figli, attualmente conservato nei Musei Vaticani. La scena, che immortala il troiano Laocoonte e i suoi due figli nella disperata lotta contro un mostro marino, è presa dal II libro dell’Eneide virgiliana. Non a caso, si tratta della scultura che lasciava senza fiato J.J. Winckelmann e che questi considerava esempio perfetto di classicità senza tempo.
«La generale e principale caratteristica dei capolavori greci è una nobile semplicità e una quieta grandezza, sia nella posizione che nell’espressione. Come la profondità del mare che resta immobile per quanto agitata ne sia le superficie, l’espressione delle figure greche, per quanto agitate da passioni, mostra sempre un’anima grande e posata. Quest’anima nonostante le atroci sofferenze, si palesa nel volto del Laocoonte, e non nel volto solo.»
(J.J. Winckelmann, Pensieri sull’imitazione delle opere greche nella pittura e nella scultura).
Il museo sotto il Museo: la “Stazione Neapolis”
Sulla sinistra si accede alla Stazione Neapolis, una vera chicca! Si tratta infatti di una zona museale posizionata esattamente al di sotto del Museo stesso. Qui (con sottile ironia) è raccolta la maggior parte dei reperti archeologici ritrovati proprio durante i lavori di scavo per la rete metropolitana. I resti sono riemersi soprattutto dal sottosuolo di piazza Bovio, Municipio e Nicola Amore, anticamente sedi della zona portuale di Neapolis.
La fotografia come voce del passato: Mimmo Jodice
Proseguendo sulla destra invece, si possono ammirare gli splendidi gruppi fotografici di Mimmo Jodice. Gli scatti sono in bianco e nero ed emergono prepotenti dalle mute pareti del corridoio. C’è Anamnesi, catalogo di antichi volti, dipinti o scalfiti, lacerati dal tempo ma fieri testimoni di storie passate. Ci sono Danzatrici ed Atleti con i loro giochi di ombre, i movimenti, i corpi sinuosi. Sono immagini che sembrano voler catturare il passante, intrappolarlo con il loro malinconico fascino.
Ma chissà se quello che raccontano queste immagini non è proprio il contrario. Chissà se, in fin dei conti, siamo proprio noi moderni ad aver bisogno di cristallizzare il passato, di intrappolarlo nello spazio di una foto per renderlo luogo prediletto di un equilibrio, di una perfezione, in fondo, impossibile.
La Testa di Cavallo
Di fronte alle Danzatrici, in alto, vi è la riproduzione della Testa di Cavallo o Cavallo Carafa, scultura bronzea conservata all’interno della Stazione Museo. Fino a poco tempo fa questa statua sembrava quasi essere caduta dal cielo: misteriosi erano per noi il suo autore e il committente, misteriosa era la sua originale collocazione. Un caso così particolare non potevanonon dare vita alle leggende più fantasiose, una per tutte quella raccontata da Matilde Serao nel suo Leggende di Napoli: la Testa di Cavallo sarebbe stata magicamente costruita niente poco di meno che dal poeta Virgilio, mago secondo l’antica tradizione partenopea, per far guarire tutti i cavalli dell’epoca.
A dispetto degli amanti del fantastico, pare che recenti studi abbiano finalmente scovato la verità. Sono, infatti, stati ritrovati documenti che testimonierebbero il pagamento di re Alfonso V d’Aragona per un monumento equestre. L’incarico sarebbe andato al grande scultore Donatello che però non portò mai a termine il lavoro. Si tratterebbe, quindi, di una notevole opera d’arte, e per fortuna, considerando che il Museo Archeologico la aveva acquistata scambiandola per una scultura di età Ellenistica!
L’ingresso principale: l’Ercole Farnese
Arriviamo ora alla stanza dell’ingresso principale della stazione museo, con la riproduzione in vetroresina dell’Ercole Farnese, opera marmorea di III sec. d.C., anch’essa conservata all’interno del Museo. L’intera collezione Farnese apparteneva appunto all’omonima famiglia romana e fu trasferita da Roma a Napoli da Carlo di Borbone (figlio di Elisabetta Farnese).
Oggi, all’interno del Museo, proprio alle spalle dell’Ercole è possibile vedere affissi un bel paio di polpacci di marmo. All’Ercole non bastavano i suoi? In realtà quelli affissi furono fabbricati da Guglielmo della Porta per sostituire gli originali che, al momento della scoperta della statua, sembravano essere svaniti nel nulla.
Verso la Linea 2: storie moderne
Concludiamo con il corridoio della stazione museo che collega alla linea 2. Continuano ad accompagnarci i lunghi corridoi bianchi e non sembra che la stazione abbia più molto da raccontarci. Prestiamo invece più attenzione alle pareti, alle svolte, agli angoli accanto alle scale: sbucano qua e là nuovi scatti in bianco e nero di moderni fotografi napoletani.
E’ subito chiaro che stiamo camminando in tutt’altra epoca. I soggetti sono ora uomini reali, vivi, drammatici. Compaiono, tra i tanti, Il disoccupato, il Venditore di uccellini di carta e il bambino del Cimitero dello sbarco in Normandia di Luciano D’Alessandro. O ancora le nature morte di Raffaela Mariniello e la parentesi sull’arte e il teatro napoletano di Fabio Donato. L’occhio della fotocamera si concentra qui sul panorama del secolo scorso dagli anni ’30 fin su agli anni ’60. Ci regala immagini prive di qualsiasi filtro idealistico o romantico, lontane dalla patina di perfezione attraverso cui ci piace guardare il mondo classico. Appaiono così profondamente dirette, profonde, familiari, potremmo dire.
Claudia Grillo
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