Cemento, soldi sporchi e criminalità organizzata dietro la più grande opera pubblica mai realizzata a Napoli. Non è una storia di cronaca moderna, ma gli scandali del Risanamento della Città, datato 1884.
Tutto cominciò con la Legge pel Risanamento della città di Napoli, approvata dopo la visita in città del Re Umberto I, Depretis e Mancini, accompagnati dal sindaco Nicola Amore.
La legge dava poteri quasi illimitati al Comune di Napoli, che avrebbe dovuto ricopiare ciò che era stato fatto a Parigi e Londra pochi anni prima con la bonifica dell’intera città.
Il risultato del Risanamento fu un caos di appalti truccati, politici corrotti e scandali finanziari che terminò in opere gigantesche, bellissime, ma incomplete. Fu infatti realizzato solo un quinto di quanto preventivato, spendendo più del triplo di quanto stanziato.
Sventrare Napoli? Un progetto borbonico
L’idea di “sventrare Napoli”, come disse il ministro Agostino Depretis, non fu propriamente italiana. Molti progetti furono ripresi dagli archivi dei Borbone che già nel 1828, ritennero essenziale la costruzione di arterie ampie e luminose in città per risanare i quartieri popolari di Napoli. Furono commissionati alcuni studi preliminari, mai realmente attuati.
La ragione che bloccò i progetti di Francesco I e Ferdinando II fu la religione, che poi fu più o meno anche la motivazione che spinse Ferdinando II a non accettare le proposte di unificazione d’Italia.
Spiega Giancarlo Alisio, massimo esperto del risanamento a Napoli, che i progetti borbonici non furono mai attuati per l’opposizione delle centinaia di conventi, monasteri e chiese disseminate in tutto il territorio napoletano. Era impossibile costruire una strada dritta senza demolire almeno due chiese o radere al suolo qualche chiostro e, per i cattolicissimi Borbone, un’attività del genere era impossibile da realizzare.
Il problema della corruzione dei politici
In tempi nuovi e anticlericali, il problema era diverso: la corruzione dei politici e imprenditori alla vista di un fiume di denaro versato per il Risanamento.
Depretis sapeva che sarebbe nata sicuramente una speculazione edilizia e disse in una lettera a Pasquale Stanislao Mancini che “la questione igienica è conosciuta, bisogna invece conoscere la parte edilizia e finanziaria (…) perciò occorre il parere di uomini tecnici competenti anziché di uomini politici che profitterebbero anche di questa circostanza per i loro fini partigiani”.
Depretis ci aveva visto bene.
Le prime gare d’appalto furono stabilite con criteri d’ammissione estremamente rigidi: il risultato fu un flop perché nessun imprenditore aveva intenzione di assumere rischi perdendo tempo con le espropriazioni di migliaia di edifici antichi civili e religiosi, oltre a non credere molto nelle potenzialità economiche di nuovi quartieri popolari.
Il Presidente del Consiglio Crispi la risolse nel modo più italiano possibile: fu costituita una impresa con capitale pubblico, la “Società pel risanamento di Napoli”.
Oggi la società esiste ancora ed è una s.p.a. con sede a Milano e si occupa di compravendita immobiliare.
Nascono Chiaia e Vomero
Se gli imprenditori non videro di buon occhio lo sventramento dei quartieri storici, le banche sabaude capirono che c’era una gallina dalle uova d’oro sulle colline e nella zona ovest di Napoli, anticipando di un secolo Mario Ottieri. Solo che, anziché costruire i mostri degli anni ’50, furono realizzati quartieri elegantissimi, razionali e ben collegati.
La Banca Tiberina e la Società dell’Esquilino, forti dell’appoggio politico di Casa Savoia e di buona parte della politica nazionale (che pochi anni dopo sarebbe stata coinvolta nel più grande scandalo finanziario d’Europa, lo scandalo della banca romana), si aggiudicarono tutti gli appalti pubblici del Comune di Napoli.
Emblematica è la strana vicenda che coinvolse Bruno, Ferraro e Cigliano, tre ingegneri napoletani che, nel 1880 si erano aggiudicati la costruzione della funicolare del Vomero.
La cordata di imprenditori fu convinta a cedere la preziosa commessa alla Banca Tiberina, proprio mentre la banca acquistava tutti i terreni del Vomero per edificare la nuova Piazza Vanvitelli, le fognature, le strade e tutto ciò che potesse riguardare la struttura urbanistica del nuovo quartiere.
Nemmeno Santa Lucia e Vasto furono risparmiate dal piccone risanatore, con la Società Geisser e Società Generale Immobiliare che si aggiudicarono gli appalti. Erano tutte imprese con sede a Torino: era cominciato il primo sacco edilizio di Napoli.
La Camorra interviene negli appalti
Napoli era un immenso cantiere. Dopo 5 anni di espropriazioni che svuotarono interi quartieri, i lavori di costruzione cominciarono il 15 giugno 1889.
L’occasione era troppo ghiotta per la Camorra: scrive Sidney Sonnino che “da almeno quindici anni i partiti locali hanno saldato un’invereconda alleanza con la canaglia di ogni tipo e qualità”. Si riferiva all’Onorata Società che, tramite i suoi affiliati nel Comune di Napoli, gestiva appalti, manovalanza e cantieri.
Le gare di appalto per le opere pubbliche venivano vinte sempre dagli stessi soggetti, con ribassi insoliti ed ingiustificabili oppure, nel caso degli espropri, ci furono rialzi colossali dei prezzi dei terreni da espropriare, che scandalizzarono l’opinione pubblica e fecero discutere molto la politica nel parlamento di Roma.
Tutto questo portò anche ad un commissariamento del Comune nel 1891 (Napoli fu commissariata 10 volte in 20 anni) per i rallentamenti nei lavori, gli scandali finanziari e gli illeciti amministrativi: arrivò un magistrato ligure, Giuseppe Saredo. Fu lo stesso che, nel 1900, sarebbe diventato il protagonista dell’inchiesta sulla “Camorra Amministrativa” di Napoli.
Proprio in quell’anno Matteo Schilizzi, banchiere trasferitosi a Napoli per motivi di salute ed attratto dalla speculazione edilizia di quegli anni, fu il principale finanziatore di Edoardo Scarfoglio, il fondatore del Mattino, in cui si lanciava in fortissime accuse contro la corruzione di tutti i potenti di Napoli.
Emblematica fu anche la vicenda di Lamont Young che, per due volte, presentò il progetto del “Rione Venezia” a Bagnoli, un visionario quartiere turistico e residenziale composto da giardini pensili, palazzi di cristallo, strutture ricreative e di balneazione, collegato da autostrade, canali navigabili e ferrovie.
Il progetto naufragò nel 1888, perché fu impossibile trovare finanziatori. E Bagnoli fu subito dopo regalata all’Ansaldo di Genova per la costruzione dell’Italsider.
Proprio in quell’anno l’ingegnere-capo del comune, Adolfo Giambarba, scrisse allarmato che “La febbre dell’acquisto dei terreni ha invaso gli speculatori, sonosi comprati fondi duplicandone il valore e ciò ha menato ad un aumento sensibile nei prezzi di rivendita delle aree edificabili”.
Insomma, nel 1888 era ormai chiaro che l’operazione Risanamento di Napoli si era trasformata da intervento di pubblica utilità in una speculazione che coinvolgeva ogni più bieco aspetto della politica, imprenditoria e criminalità.
A Napoli, nella fine dell’800, ci fu un vero e proprio triangolo di potere guidato dal deputato Alberto Casale, il sindaco Celestino Summonte ed il direttore del Mattino Edoardo Scarfoglio, che gestivano ogni aspetto dell’informazione pubblica, della politica e dell’economia napoletana.
Basterà pensare alla sfuggente figura dell’onorevole Alberto Casale che era considerato l’”uomo ombra” di Napoli: gestiva ogni aspetto della vita amministrativa e politica della città senza alcuna carica diretta. Fu addirittura coniato un termine, “casalismo”, per indicare quella corrente politica legata strettamente al potere criminale della Napoli di fine ‘800.
L’unico politico che condannò il sistema politico napoletano fu Francesco Saverio Nitti. Scrisse sul Mattino di “non conteggiare i voti del napoletano” perché, “nonostante vivessero in città tante oneste persone, ogni elezione era già decisa“.
Gaetano Salvemini rincarò la dose con una sentenza lapidaria: “Napoli ha fama di essere oramai così profondamente immorale da non essere più capace di redimersi da sé”.
Un Risanamento all’italiana
Il Risanamento non fu mai completato, ma lasciò comunque un segno eterno nel volto della città.
Quando fu dichiarato concluso il lavoro nel 1910 (doveva inizialmente durare 12 anni), la società aveva costruito 180.000 metri quadri dei circa 375.000 minimi previsti da contratto. Complessivamente il progetto del Risanamento prevedeva la costruzione di 980.686,76 metri quadri, di cui fu realizzato solo un quinto.
Le 100.000.000 lire versate nel 1884 (equivalenti a circa 500 milioni di euro attuali), invece, sparirono nel primo anno a causa degli espropri che diventarono costosissimi. Già nel 1888 (quindi un anno prima dell’inizio dei lavori di costruzione!) la società statale dichiarò di essere sull’orlo della bancarotta per colpa di continue spese impreviste. Per non lasciare una città sventrata e devastata dai cantieri, la società fu ricapitalizzata più volte, un po’ come l’Alitalia, e i costi dell’operazione si gonfiarono a dismisura. Fu quindi emanato nel 1885 un decreto che stanziava altri 120 milioni e 303 mila lire, con l’obbligo del Comune di Napoli di farsi carico di tutte le ulteriori spese. Inutile dire che le spese ci furono e il Comune si indebitò talmente tanto da richiedere l’intervento di un commissario speciale nel 1899.
Se dovessimo fare un confronto con le spese moderne, i circa 250 milioni di lire del 1884 sono equivalenti a circa 1 miliardo di euro del 2020. Per costruire solo le fogne, il Corso Umberto, Chiaia e Rione Santa Lucia. Tutti gli altri luoghi, compresa la Galleria Umberto, infatti, furono costruite da privati con i propri fondi.
La mancanza più grave fu quella di aver “rinunciato alla costruzione di ogni edificio pubblico“, come denunciò il deputato socialista De Martino nel 1899. Oltre al Palazzo della Borsa (che tra l’altro non entrò mai in funzione) e l’Università Federico II, infatti, durante il Risanamento non furono mai costruiti ospedali, scuole e servizi pubblici previsti nel progetto originale.
In pratica fu spesa una cifra 10 volte maggiore di quella preventivata per costruire metà del minimo previsto.
Matilde Serao chiamò il Rettifilo “un paravento”, proprio per ridicolizzare una facciata che ha nascosto la città povera. I poveri non se la videro meglio: dopo essere stati sfrattati, furono ammassati nei fondaci rimasti o, i più fortunati, fuggirono nei casali della provincia di Napoli, dando origine alla crescita incontrollata del’hinterland napoletano.
Furono inoltre demolite 63 chiese medievali, ma solo pochi reperti furono inventariati e portati nel museo di Donnaregina.
Ben diverso fu invece l’approccio degli speculatori privati nelle aree libere, ovvero il Vomero e Chiaia: il primo rimase, fino agli anni ’50, sviluppato attorno a Piazza Vanvitelli come un’oasi nel deserto. Chiaia, invece, con la colmata a mare cancellò completamente l’antica spiaggia. Il Rione Santa Lucia, diventò il “Rione della Bellezza” di Napoli.
Il Risanamento segnò la separazione fra città ricca e povera, creando un’anomalia mai vista in città: per millenni nobili e pezzenti avevano frequentato le stesse strade. A partire dalla fine del XIX secolo, la borghesia felicemente si trasferì fra Vomero, Corso Umberto e Chiaia, vivacchiando chiusa fra salotti, teatri e case da gioco. E della plebe nessuno volle più sentirne parlare.
Si salvò per pura fortuna il Castel dell’Ovo dalle demolizioni, dato che doveva far spazio ad un nuovo rione. Fu infatti costruito solo il Borgo Marinari, una sorta di ghetto per i pescatori di Santa Lucia sfrattati, per giunta in un’area incapace di contenere il numero elevatissimo di nuovi senzatetto.
-Federico Quagliuolo
La storia è dedicata a Giuseppe D’Angelo, per la sua generosa donazione a Storie di Napoli. Sostieni anche tu le nostre attività!
Riferimenti:
Giancarlo Alisio, Napoli e il Risanamento
Vittorio Gleijses, Storia di Napoli
Francesco Barbagallo, Storia della Camorra