La storpiatura del suo nome è davvero dietro l’angolo: “paparaccella“, “pappacella”, “pupacchiella” e, invece, il suo nome è “papaccella napoletana”. Chiariamolo subito perché per molti anni è stata fraintesa e bistrattata.
Sì, appartiene alla famiglia dei peperoni, ma ha bacche piccole, tondeggianti, leggermente schiacciate e costolute, da mangiare in ogni modo, anche cruda – mordendola appena raccolta – perché non è piccante come spesso erroneamente si crede.
Di una dolcezza unica e saporitissima: ideale per le conserve tradizionali sottaceto, sottolio, oppure sfritte in padella insieme a una gran bella costoletta di suino di razza casertana.
Conosciamo la papaccella napoletana
Da luglio fino ai primi freddi, tutti i fruttivendoli vendono quintali di peperoni (purtroppo, anche negli altri mesi, ma non sono di stagione e il sapore non è nemmeno lontanamente assimilabile), ma solo una è la papaccella napoletana.
Quelle veraci sono piccole e raggiungono al massimo i dieci centimetri di diametro. Le bacche hanno colori decisi che variano dal verde intenso al giallo, fino al rosso fuoco o, addiriturra, vinaccia.
Generalmente si seminano a marzo e si raccolgono da luglio fino agli inizi di novembre.
Molti, erroneamente, lo definiscono “chiochiaro”, che altro non sarebbe che il “topepo”, una sorta di papaccella prodotta principalmente in Calabria che però è liscia e piccante, a differenza della nostra papaccella napoletana che è riccia e dolce.
Ed è proprio questo “topepo” che nei decenni passati è diventato il più diffuso sul mercato perché prodotto in larga scala, al punto da essere utilizzato anche nell’insalata di rinforzo, rubando la scena alla nostra papaccella, molto più indicata a preparare quelle conserve che, venendo meno le “nonne”, sono sempre di più diminuite.
Un recupero delle tradizioni
Proprio per questo la Regione Campania ha recuperato i semi originari della papaccella riccia che sono stati poi utilizzati dai produttori del Presidio. Sì, perché la papaccella napoletana è diventato un Presidio Slow Food, proprio perché prodotto tradizionale considerato a rischio di estinzione.
Essa veniva coltivata storicamente nella zona di Brusciano, dove non è un caso che uno dei cognomi più diffusi sia proprio “Papaccio”. E proprio da qui parte questa storia bellissima, di un “peperone che non è un peperone”, al punto da dover stilare un severo disciplinare, che ha esteso l’area di produzione all’agro acerrano-nolano, tra le province di Napoli e Caserta.
Ora non vi resta che provarla e non avete scuse, proprio perché se anche i peperoni vi dovessero risultare indigesti (come capita a me), per la papaccella napoletana non sarà così, proprio perché…è un’altra cosa.
Provare per credere!
Yuri Buono
Riproduzione Riservata
Lascia un commento