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Quello che è oggi il Tribunale di Aversa, un tempo era un manicomio criminale. Ebbene sì, gli avvocati si trovano a trattare udienze e a depositare atti in un ex centro di cura per malati mentali. Proviamo a capire come questo utilizzo sia stato possibile ma, per farlo, è d’obbligo un salto alle origini della sua storia.

Il Tribunale di Aversa, ex Castello Aragonese

Storia del Tribunale di Aversa: l’ex Castello Aragonese

Dopo aver accennato dell’utilizzo del Tribunale di Aversa come struttura per i cosiddetti “folli rei“, parliamo adesso della storia della sua costruzione. Il palazzo del Tribunale di Aversa è un maestoso castello medievale, che è possibile ammirare nella centrale piazza Trieste e Trento: il maniero misura circa 103 metri per lato e 27 metri di altezza. Questa storica costruzione risale al Medioevo per volere di uno dei regnanti partenopei, Ruggero II di Normandia.

Il castello fu poi sistemato con l’intervento di Alfonso d’Aragona (XV-XVI secolo), da qui l’appellativo di “Castello Aragonese“. Intorno alla metà del XVIII secolo Luigi Vanvitelli pose la sua impronta e la fortezza fu trasformata in “Caserma di Cavalleria borbonica“, come è possibile riconoscerla nella recente veste. Il Tribunale di Aversa è stato negli ultimi anni sede della scuola di Polizia Penitenziaria. A partire dalla data di istituzione del Tribunale di Napoli Nord (13 settembre 2013), il Castello Aragonese è diventato sede del Tribunale di Aversa e degli uffici giudiziari di Napoli Nord.

Il Castello di Ruggiero II sorse nei pressi della chiesa di Santa Maria a Piazza, nell’area del Patibulum, al limite settentrionale della terza cerchia di mura. Venne costruito di forma quadrata, con le torri merlate agli angoli, e orientato, secondo un’antica ripartizione, sui quattro angoli del mondo: zona àntica, pòstica, dell’occàso, dell’ovest. Si ergeva su quattro livelli ed un sottopiano, le carceri e i magazzini.

Il primo piano di quello che oggi è il Tribunale di Aversa terminava col terrazzo mentre la zona centrale, il castello vero e proprio, comprendeva altri due livelli. Il terzo nelle torri est ed ovest aveva scale nella muratura: quando veniva espugnata una torre l’altra, essendo isolata, era ancora salda. La tipologia segue schemi di derivazione orientale le cui origini vanno cercate nelle fortezze di Antiochia che i nostri costruttori hanno certamente conosciute. Concludevano le torri merlate una sorta di incastellatura.

Nelle prima Crociata a raggiungere per primi la Terrasanta furono i normanni aversani, partiti forse proprio da questo castello e, con Goffredo di Buglione e Boemondo, vi crearono quattro stati. Poiché i costruttori del castello di Saone (Francia) furono Roberto, figlio di Tancredi, e Guglielmo suo figlio, gli stessi che erano al seguito di Ruggiero, anche a costoro potrebbe assegnarsi il Castello di Aversa, che per l’appunto presenta analogie con quello di Saone; e poiché Federico II ben conosceva il castello di Aversa per averlo visitato in più occasioni, non si può escludere che gli sia servito come modello di base per i castelli pugliesi e siciliani.

Il castello fu elaborato col modulo della sezione aurea, ‘media ed estrema ragione’, che vediamo ripetersi più volte nell’impianto dello schema, ritenuto già nell’antichità “proporzione divina”. A Federico II, invece, si deve la creazione del portico interno, forse il rifacimento delle torri angolari, il restauro di qualche ala e, probabilmente, anche la sistemazione del nuovo fossato.

In seguito è stato dimora e rifugio di principi, di regine, regnanti e capitani di ventura, tra cui Giovanna I d’Angiò (Giovanna la pazza), tristemente nota per il suo carattere volubile e sensuale, e Muzio Attendolo Sforza, padre del più famoso Francesco.

Dopo i danni del 1382, del 1456 e 1457, nel 1492 il castello ebbe una nuova sistemazione da Alfonso d’Aragona così come appare nella veduta della città di Aversa (XVI-XVII sec.) riportata da Pacicchelli dove è visibile il quadrato con i filari di pietre sovrapposte e il terrazzo: fu allora che prese il nome di Castello Aragonese. Circondato da un alto fossato e munito di bastioni, si sviluppò intorno ad un cortile quadrato e porticato, con al piano terra una loggia con un numero pari di arcate per lato ed al primo piano grosse sale coperte con volte a botte che danno sul cortile centrale.

Il Re Alfonso ci abitò spesso, sostandovi lungamente nel corso dei suoi spostamenti fra Napoli e Capua. Nel 1700, per le alterne fortune e l’incuria umana il castello era di nuovo in rovina, finché nel 1750 Carlo III di Borbone, (che volle anche la Reggia di Caserta), ne affidò il restauro al suo architetto migliore, Luigi Vanvitelli, per farne un Quartiere di Cavalleria. Furono eseguite aggiunte sia sulle ali dell’antico corpo che sul secondo e terzo livello, ed il quarto, integrato nelle torri, fu costruito ex novo.

A seguito di tale intervento scomparve del tutto la struttura originaria poiché le cortine perimetrali furono recintate da un unico ordine architettonico, il tuscanico, ed il fossato fu completamente coperto. Il maestoso castello, che si può ancora oggi ammirare nella piazza Trieste e Trento, misura circa 103 metri per lato e 27 di altezza, ed è dotato di spesse mura quadrate e dall’alto delle sue quattro torri, domina la vasta zona circostante. Ma sia per i travagli storici, sia per l’incuria umana alla fine dell’800 il castello era di nuovo in rovina, e solo nel 1931 ritornò alla ribalta per merito del noto frenologo aversano Filippo Saporito.

Infine, l’ultimo utilizzo, quello di Scuola di Polizia Penitenziara, dopo la separazione (solo amministrativa) del Castello dal Manicomio Criminale. La scuola è nel Tribunale di Aversa, il manicomio è tornato negli edifici originari degli anni ’30.

Piazza Trieste e Trento

L’ex Castello Aragonese come manicomio criminale

Nel 1931 al noto frenologo aversano Filippo Saporito (di cui l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Aversa porta il suo nome) fu assegnato un nuovo edificio come struttura per accogliere l’ospedale, l’ex Castello Aragonese ubicato nel centro storico di Aversa. Il frenologo fece restaurare il palazzo e lo utilizzò per ampliare la sua adiacente Casa di Cura e di Custodia, divenendo così un Carcere Giudiziario tra i più famosi d’Italia.

Filippo Saporito è stato uno psichiatra italiano. Già prima di laurearsi nel 1896, lavorava nell’Ospedale Psichiatrico della Maddalena. Prima dell’assegnazione dell’ex Castello Aragonese, nel 1907 si occupò di dirigere il primo Manicomio civile. Sin dagli inizi del ‘900 si impegnò nella politica attiva aversana come consigliere comunale.

Dal 1920 al 1930 pubblicò una serie di studi psichiatrici, sociali e giuridici che vennero esposti in vari congressi accademici. Sarà lui a scrivere nel 1946 la perizia psichiatrica che dichiarerà Leonarda Cianciulli, la saponificatrice di Correggio (RE), totalmente insana di mente, perizia che non verrà accolta dal tribunale di Reggio Emilia, che riconoscerà invece all’omicida solo un’infermità parziale e che la condannerà alla detenzione in un manicomio giudiziario.

Leonarda Cianciulli nel marzo 1946 durante il colloquio con Filippo Saporito (1870-1955) nel manicomio criminale di Aversa

La saponificatrice di Correggio: la storia

Leonarda Cianciulli è passata alla storia come “la saponificatrice di Correggio ” per aver ucciso tre donne (Ermelinda Faustina Setti, Francesca Clementina Soavi, Virginia Cacioppo) per poi scioglierle nella soda caustica, così come avviene nel processo per la produzione del sapone.

Gli omicidi ebbero luogo dal 1939 al 1940, e nel 1941 cominciarono a diffondersi le voci della scomparsa di tre donne. Tali pettegolezzi presero corpo e, non ricevendo più da tempo notizie della cognata scomparsa (la più nota delle tre, Virginia Cacioppo, già famoso soprano d’opera), la signora Albertina Fanti denunciò ufficialmente le sparizioni al questore di Reggio Emilia, il quale incaricò delle indagini il commissario Serrao. Subito i sospetti caddero sulla Cianciulli, che aveva intrattenuto rapporti di amicizia con tutte e tre le donne.

La Cianciulli respinse tali voci, minacciando di denunciare per ingiuria e assumendo toni di sfida nei confronti degli inquirenti, cosicché venne arrestata. La Cianciulli aveva avuto la premura di scegliere tre donne sole, senza prossimi congiunti e con cospicui risparmi in denaro, ma nessuno poteva credere che la moglie di un funzionario, alta 1 metro e 50 e di 50 chili, potesse macchiarsi di triplice omicidio.

La Cianciulli confessò d’aver ucciso le donne, distrutto i corpi facendoli bollire in un pentolone pieno di soda caustica portata a 300 gradi, creato saponette con l’allume di rocca e la pece greca, disperso i resti nel pozzo nero e conservato il sangue per farlo attecchire al forno e mischiato a latte e cioccolato per farci biscotti. Questi vennero dati da mangiare ai figli, che credeva così di salvare da una morte misteriosa: la Cianciulli si identificava infatti nella dea Teti, perché come Teti aveva voluto rendere i figli immortali bagnandoli nelle acque del fiume Stige, così anche lei voleva salvare dalla morte i figli col sangue delle sue vittime.

La Cianciulli fu dichiarata colpevole, quindi, di triplice omicidio, distruzione di cadavere tramite saponificazione e furto aggravato, con la pena di 15.000 lire, trenta anni di reclusione e tre da scontare prima in un ospedale psichiatrico. La prima a finire nel pentolone della Cianciulli, fu Faustina Setti detta “Rabitti”. Leonarda, infatti, uccise l’anziana donna a colpi di ascia poi ne trascinò il corpo in uno stanzino e lo sezionò in nove parti, raccogliendo il sangue in un catino.

«Gettai i pezzi nella pentola, aggiunsi sette chilogrammi di soda caustica, che avevo comprato per fare il sapone, e rimescolai il tutto finché il corpo sezionato si sciolse in una poltiglia scura e vischiosa con la quale riempii alcuni secchi e che vuotai in un vicino pozzo nero. Quanto al sangue del catino, aspettai che si coagulasse, lo feci seccare al forno, lo macinai e lo mescolai con farina, zucchero, cioccolato, latte e uova, oltre a un poco di margarina, impastando il tutto. Feci una grande quantità di pasticcini croccanti e li servii alle signore che venivano in visita, ma ne mangiammo anche Giuseppe e io».

Leonarda Cianciulli
Gli strumenti usati dalla Cianciulli per i suoi delitti e le foto delle vittime conservati al Museo criminologico di Roma

La sala convegni del Tribunale di Aversa intitolata al giudice Livatino

Veniamo ai giorni nostri, dovete sapere che all’interno del Tribunale di Aversa si trova una sala conferenze intitolata a Rosario Livatino, il giudice siciliano freddato dalla gragnola delle pallottole della Stidda, frangia scissionista della mafia, il 21 settembre del 1990 mentre si recava in tribunale sulla statale 640 agrigentina. La sua figura è ricordata nel film di  Alessandro Di Robilant Il giudice ragazzino, uscito nel 1994. È venerato come beato e martire dalla Chiesa Cattolica.  

Rosario Livatino nel 1985. Martire. Nascita 3 ottobre 1952. Morte 21 settembre 1990 ad Agrigento (37 anni). Venerato da Chiesa cattolica. Beatificazione: 9 maggio 2021 dal cardinale Marcello Semeraro. Ricorrenza 29 ottobre.

Nel giorno della cerimonia di inaugurazione della sala conferenze del Tribunale di Aversa (21 settembre 2017), gli stati generali della giustizia si sono dati appuntamento ad Aversa per commemorare il magistrato Livatino, giovane ed incorruttibile, emblema di una vita spesa per la giustizia e la legalità. In quella occasione a testimoniare l’importanza della funzione di presidio del territorio svolta da magistratura e forze dell’ordine, furono presenti all’evento anche il poliziotto Nicola Barbato, gravemente ferito in servizio, ed i familiari del carabiniere maranese Salvatore Nuvoletta, ucciso dalla camorra.

Bibliografia

Domenico RagozzinoL’opera di Filippo Saporito e la modernità del suo pensiero, Istituto di Studi Atellani, 1983

Barbara Bracco, La saponificatrice di Correggio: una favola nera, Bologna, il Mulino, 2018, ISBN 978-88-15-27811-1.

Nando dalla Chiesa, Il giudice ragazzino. Storia di Rosario Livatino assassinato dalla mafia sotto il regime della corruzione, Einaudi 1992.

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