Micco Spadaro, più che un semplice pittore: attraverso la sua arte, ha creato un ponte tra il presente e la Napoli vicereale del XVII secolo, un vero fotoreporter d’altri tempi. Infatti, i soggetti dei suoi più noti quadri non sono ritratti di nobili in posa o inflazionate scene religiose, bensì crude e panoramiche raffigurazioni di eventi, spesso brutali e drammatici, che hanno segnato la storia di Napoli e di cui è stato testimone in prima persona; eventi che l’autore racconta senza esclusione di dettagli.
Un fabbro mancato
Domenico, detto “Micco”, figlio di Pietro Antonio Gargiulo, fabbricante di spade (da qui il soprannome “Spadaro”), fin da bambino mostrò disinteresse nell’attività paterna, almeno pari al grande interesse che, invece, nutriva nei confronti del disegno, specialmente nella raffigurazione di città e di paesaggi.
Nato e cresciuto nel centro storico di Napoli, quando Micco espresse la volontà di ricevere un’istruzione e di approfondire il suo interesse per le arti visive, il padre rispose con un no secco: doveva lavorare e proseguire l’attività di famiglia.
Rassegnato, il giovane artista non oppose resistenza al suo genitore, accettando di dedicarsi a tempo pieno alla lavorazione delle spade, nella bottega di famiglia. Tuttavia, non mise completamente da parte la sua indole artistica, che esprimeva con il disegno e la realizzazione di particolari manici di spada.
I suoi lavori vennero tanto apprezzati che ricevette molte commissioni per i suoi particolari manici decorati da parte dei clienti di suo padre. Un simile incoraggiamento fece scoccare la scintilla che riaccese la sua passione per il disegno, così, di nascosto agli occhi di suo padre, si mise a ricopiare i paesaggi raffigurati su stampe di grandi autori del suo tempo, per cercare di carpire i segreti delle loro tecniche. Tuttavia, Pietro Antonio lo scoprì. Seguirono molte discussioni e, dato che non riuscì in alcun modo a dissuadere il giovane Domenico dal rinunciare al suo sogno di diventare un artista, lo cacciò di casa.
Sotto l’ala di Falcone
Per lungo tempo, “Micco”, come era solito farsi chiamare, vagò alla ricerca di un po’ di stabilità, dopo la cacciata di casa. Sopravviveva vendendo i suoi disegni e riuscì, solo per breve tempo, a farsi ospitare da uno zio, con cui però non potè rimanere, poichè anch’egli molto povero.
A circa diciotto anni, tuttavia, fece un incontro che gli cambiò la vita: incrociò per strada Carlo Coppola, un cliente della bottega di suo padre, appassionato di scherma, a cui aveva realizzato un manico di spada e di cui era divenuto amico grazie al suo precedente impiego.
Si dà il caso che Carlo fosse un pittore, allievo di Aniello Falcone: infatti, vedendo l’amico Micco in una così misera situazione, gli fece una proposta “che non potè rifiutare”: volle presentarlo al suo maestro, uno dei più celebri pittori napoletani dell’epoca. Quest’ultimo, commosso dalla storia di Domenico, decise di accettare di ospitarlo presso casa sua ed istruirlo.
Vivendo assieme a tanti altri giovani e talentuosi artisti napoletani, tra cui, oltre all’amico Carlo Coppola, anche Salvator Rosa, Domenico ebbe modo di perfezionare le sue tecniche, finchè il nome di “Micco Spadaro”, come era solito firmarsi, non cominciò a diffondersi, grazie ai suoi molti quadri venduti.
La rivolta del 1647
Le regolari e fruttuose attività della scuola di pittura di Aniello Falcone furono bruscamente interrotte nel fatidico 1647, poichè il noto pittore fu colpito in prima persona da una tragedia, che lo introdusse nel periodo più oscuro della sua vita: un suo parente, dopo un diverbio con dei soldati spagnoli, fu da loro assassinato. Falcone, che già non vedeva di buon occhio le prepotenze ed i soprusi degli spagnoli in città, decise di aderire ai tumulti.
Ma non si limitò a questo, era assetato di vendetta per le angherie subite. Raccolse adesioni tra i suoi discepoli ed amici per organizzare la “Compagnia della morte“, un manipolo di uomini armati che, approfittando del caos della rivoluzione di Masaniello, aveva lo scopo di assassinare i soldati spagnoli con cui avevano conti in sospeso.
Durante questa sanguinosa parentesi, Micco Spadaro, che si rifugiò in un convento con alcuni colleghi, trovò l’ispirazione per realizzare alcune tra le sue opere più famose, in cui raffigurava in modo crudo le terribili azioni della folla inferocita di cittadini napoletani che avevano finalmente occasione di assaporare la sensazione di avere il coltello dalla parte del manico.
Tra le sue più conosciute raffigurazioni, c’è la morte di Giuseppe Carafa, fratello del temibile Diomede V, oppure un’ampia veduta su piazza Mercato che mostra le scene dello scoppio della rivolta di Masaniello. Dipinse anche un ritratto dello stesso capopopolo, un’eccezione al suo solito tipo di raffigurazioni.
Nei suoi dipinti, Domenico mostra, con un’ampia veduta, il caos e la violenza che caratterizzarono quei mesi, in cui un popolo in miseria, rappresentato da folle armate alla meglio e vestite di stracci, colse l’occasione per dar sfogo a tutte le frustrazioni accumulate negli anni a causa della prepotenza della nobiltà locale.
Con la morte di Masaniello e i tumulti che venivano via via soffocati col sangue, la Compagnia di Aniello Falcone cessò la sua attività ed i suoi componenti tornarono alle loro mansioni. Ai pittori non accadde nulla, forse grazie all’intercessione di Giuseppe Ribera, detto “lo spagnoletto“, caro amico di Falcone, nonchè uno dei pittori preferiti del vicerè e del re di Spagna in persona. Infatti, pare che Filippo IV avesse più dipinti di Ribera che di qualcunque altro pittore nella sua collezione.
L’apice della carriera
Prima, durante e dopo la rivoluzione del 1647, Micco Spadaro non ha mai smesso di dipingere. Il suo nome si diffuse sempre di più tra i committenti arrivando anche all’estero. Tra i nomi dei suoi clienti di maggior spicco si annoverano Caracciolo, Carafa e perfino il cardinale Ascanio Filomarino. Proprio in Spagna, un quadro di Spadaro colpì molto il pittore Luca Giordano, che, rientrato a Napoli, volle conoscere a tutti i costi Micco, di cui divenne grande amico e con cui collaborò per alcuni lavori. In quegli anni, Spadaro strinse amicizia anche con Andrea Vaccaro, diventando assiduo frequentatore della sua casa.
La sua arte fu condizionata, oltre che dai suoi molti maestri illustri, anche dal costante clima di amicizia mista a una punta d’invidia nei confronti di Salvator Rosa, con cui era, indirettamente, in competizione: Micco era solito seguire con attenzione le vicende che riguardavano il suo collega ed informarsi sulle ultime opere che aveva prodotto, cercando di fare lo stesso.
Ad esempio, udendo del successo che Salvator Rosa stava avendo a Roma, Micco Spadaro volle imitare i suoi soggetti. Se Uno disegnava paesaggi o santi, lo faceva anche l’altro. Se uno usava tele molto ampie, l’altro non era da meno.
La peste a Napoli
Nel 1656, scoppiò una terribile epidemia di peste a Napoli, ennesimo evento che mise a dura prova la già molto provata popolazione, che ne sarebbe uscita decimata. Tra i morti, vi furono alcuni dei più cari amici di Micco, tra cui l’uomo che gli fece da Mecenate, Aniello Falcone.
Micco, tuttavia, si salvò ancora una volta dalla disgrazia, grazie al cardinale Filomarino: fu ospitato in un monastero, a patto che ripagasse l’ospitalità con il suo lavoro.
In quel periodo, realizzò un’altra delle sue opere più celebri, raffigurante il lazzaretto che era stato istituito al “largo mercatello“, odierna piazza Dante. Seguì anche un dipinto realizzato come ex voto per il termine dell’epidemia.
Gli ultimi anni e la morte
L’attività artistica di Micco Spadaro fu prolifica anche dopo la strage causata dalla peste. Rimase a vivere a Napoli, dove era ben noto ed apprezzato. Continuò ad istruire gli allievi che frequentavano il suo laboratorio fino alla morte.
Nonostante i caotici e tumultuosi eventi che aveva vissuto, fu un ben meno eclatante piccolo incidente domestico a porre fine alla sua vita. Un giorno tra il 1675 e il 1679, Domenico, oramai settantenne, corpulento e dalla vista che cominciava a calare, incorse in una brutta caduta nella propria abitazione, nel quartiere Avvocata. Pochi giorni dopo, le sue condizioni si aggravarono e morì.
Di molti dei suoi allievi sono andate perse le tracce, ma oggi i loro quadri, così come quelli del loro maestro, fanno parte di ricche collezioni private e perfino museali, dove possono essere sotto gli occhi di tutti, proprio come Micco Spadaro avrebbe voluto.
-Leonardo Quagliuolo
Per approfondire:
“Vita dei pittori ed architetti napoletani“ di Bernardo De Dominici
“La compagnia della morte tra realtà e leggenda“ di Maria Gaia Redavid
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