Quando si parla di dialetto napoletano ci si imbatte sempre in un dubbio: ma il napoletano deve essere considerato un dialetto o una lingua?
La differenza tra lingua e dialetto
Prima di tutto, per sviscerare questo arcano, dobbiamo capire bene cosa significano queste due parole: lingua e dialetto. Claudio Marazzini, linguista ed accademico, ci spiega:
“In origine l’italiano, ovvero il toscano letterario, non era altro che uno dei tanti dialetti italiani, nati tutti dal latino, quindi tra loro «fratelli». La differenza tra dialetto e lingua non è assoluta, perché i due termini hanno valore solo nel confronto reciproco: la lingua è un dialetto che per cause storiche o abitudini culturali e sociali ha raggiunto uno status superiore. In genere, il dialetto è usato in un’area più ristretta, ha un prestigio sociale minore ed è simbolo di un’identità locale.
Inoltre, non sempre ha un tradizione scritta. La lingua invece ha maggiore diffusione, unifica un territorio più ampio, è simbolo di un’identità nazionale, è strumento della classe dominante e degli organi governativi ed amministrativi, è insegnata a scuola ed è codificata da precise norme grammaticali.“
Claudio Marazzini
Questo ci porterebbe a propendere per la definizione di dialetto napoletano, piuttosto che di lingua napoletana.
Ma allora perché nasce questo dubbio?
La produzione culturale in dialetto napoletano
Rispetto a tanti altri dialetti italiani, quello napoletano ha una produzione culturale vastissima e di altissimo livello. Canzoni, poesie, opere teatrali: il parlare dialettale è ritenuto dagli autori più incisivo, specialmente se si vuol esprimere un sentimento, uno stato d’animo, allusioni o alcuni tipi di riferimenti. Il dialetto napoletano è lo strumento che permette di arrivare alle radici, di rifarsi a una tradizione antica, ma può essere anche una scelta fortemente ideologica.
La musicalità del dialetto napoletano ha portato la produzione letteraria e culturale ad un livello altissimo. Non è un caso, ad esempio, che tra tutti i generi musicali l’unico che si lega strettamente a una città sia proprio quello nostrano: jazz, rock, pop e… musica napoletana!
Ancora, il teatro: le commedie di Eduardo, solo per fare un altro esempio, sono passate dall’essere un patrimonio della nostra città ad appartenere alla tradizione dell’Italia intera (ogni 24 dicembre la Rai trasmette Natale in casa Cupiello infatti, no?). E ancora, la letteratura romanzesca, vedi il caso letterario della Ferrante, o la produzione poetica, quella comica, vedi Totò, quella cinematografica, con Massimo Troisi o il filone neorealista, sono produzioni di un livello altissimo, in cui l’uso del dialetto napoletano porta ad una maggiore espressività, una forza stilistica importante.
Questa complessità culturale è probabilmente una delle motivazioni alla base del dubbio sullo status del napoletano: se è così vasto e profondo allora è un dialetto o una lingua?
Norme linguistiche del dialetto napoletano
La dialettologia, scienza che studia le lingue parlate, si trova nell’enorme difficoltà di dover riprodurre un patrimonio essenzialmente orale in forme di documentazione scritta.
Ma un quesito interessante, in questo caso, si pone sulla fedeltà dei testi, sul rischio di filtrare il dialetto attraverso la competenza che si ha dell’italiano scritto. Ci si chiede, cioè, se il dialetto napoletano utilizzato dagli autori rifletta l’esperienza quotidiana, o si adegui a forme codificate o standardizzate, che, visto che il parlato si modifica molto più velocemente dello scritto, risultano ormai arcaiche e desuete.
La scrittura in dialetto ha dei modelli, ma non una norma linguistica di riferimento o una grafia unitaria, perciò assistiamo spesso a dei testi in napoletano che presentano segni grafici in modo vario e non univoco.
Esistono esempi di vocabolari dialettali, come l’Andreoli o il d’Ascoli, così come di grammatiche del dialetto napoletano, la più antica delle quali è quella di Ferdinando Galiani del 1779, intitolata Del dialetto napoletano. Ma anche in questi casi si tende a descrivere un napoletano non nella varietà parlata dal popolo, bensì in una sorta di dialetto illustre, già italianizzato, da rivitalizzare ed utilizzare in tutte le situazioni comunicative, compresi gli usi pubblici.
Altre opinioni dei linguisti a riguardo
Per approfondire l’argomento rimandiamo in bibliografia al blog di Raffaele Bracale, grande studioso della lingua napoletana. Qui uno stralcio del suo intervento:
“Diamo, qui giunti, una risposta alla domanda che c’eravamo posti: come definire il napoletano? Non lo si può definire lingua perché pur essendo stato, per lunga pezza , un sistema di suoni articolati distintivi e significanti (fonemi), di elementi lessicali, cioè parole e locuzioni (lessemi e sintagmi), e di forme grammaticali (morfemi), accettato e usato da una comunità etnica, politica o culturale come mezzo di comunicazione per l’espressione e lo scambio di pensieri e sentimenti, con caratteri tali da costituire un organismo storicamente determinato, con proprie leggi fonetiche, morfologiche e sintattiche al pari della lingua italiana, francese, inglese, tedesca, araba, turca, cinese, all’attualità, pur essendo mezzo di comunicazione scritta ed orale di molti individui non è parlata da tutta una nazione e resta nell’ambito della varietà dei dialetti e delle parlate regionali; non la si può definire lingua, mancandogliene la dignità pur risultando essere mezzo espressivo di moltissimi letterati, poeti, commediografi che servendosi del napoletano hanno prodotto importanti opere letterarie (poesie, commedie, narrativa), spesso anche accompagnate dalla musica (melodrammi, canzoni ecc.); ma non lo si deve neppure definire dialetto, atteso che in genere con tale termine si intende un volgare, riduttivo linguaggio minore tributario della lingua ufficiale, cosa che non si attaglia per nulla al napoletano che è invece (e mi ripeto sottolineandolo) è un degnissimo idioma, una apprezzabilissima parlata autonoma, ad ampia diffusione regionale, figlia del tardo latino e di quello volgare e parlato, idioma ricco di storia e di testi ed usatissimo per secoli in tutto il meridione, non diventato lingua nazionale solo per la protervia di certi governanti e per la furbizia di taluni mercanti, banchieri, scrittori e/o poeti toscani!”
La fake news: il napoletano è patrimonio dell’Unesco
L’UNESCO nel 1996 ha pubblicato l’Atlas of the World’s Languages in Danger, L’Atlante mondiale delle lingue in pericolo, a cura del linguista Christopher Moseley. Questo testo ha l’obiettivo di censire tutte le lingue minacciate di estinzione, in tutto il mondo, inserendole in una scala di pericolo, da vulnerabile a estinto. Nell’Atlante è presente anche la lingua napoletana, a cui è attribuito il grado di vulnerabile, definito nel modo seguente: la maggior parte dei bambini la parla, ma l’uso è limitato ad alcuni ambiti sociali, la casa e le interazioni con la famiglia.
Da questo dato sono venute fuori diverse fake news, che con il passare del tempo si sono ingigantite. La prima è che il napoletano sia patrimonio dell’UNESCO, questo non è vero, poiché vorrebbe dire che l’organizzazione punta a salvaguardare questo idioma perché migliore o più bello di altre lingue che invece non sono inserite nell’Atlante, quando in realtà non ci sono semplicemente perché non in pericolo di estinzione.
La seconda, più precisamente legata al tema di cui stiamo parlando, è che il napoletano è da considerare senza dubbio una lingua, dato che l’UNESCO l’ha definita così! Anche questo non è vero, in quanto la compilazione dell’Atlante si basa su un criterio che è diverso da quello che utilizza la nostra linguistica. Secondo il criterio utilizzato nell’Atlante, il napoletano è lingua perché non è una varietà di italiano, ma un sistema linguistico a sé. Ciò non vuol dire che per questo la possiamo definire lingua e non dialetto.
La sopravvivenza del dialetto napoletano
In conclusione, al di là del nome che vogliamo dare al nostro magnifico idioma, dobbiamo sempre essere consapevoli dell’immenso patrimonio che è nelle nostre mani. Salvaguardiamo il dialetto napoletano, portando sempre in alto produzione letteraria, continuandolo a parlare, insegnandolo alle generazioni future, studiandolo noi stessi: in questo modo riusciremo anche noi ad esprimerci meglio, ad esprimerci di più!
Bibliografia
Carla Marcato, Dialetto, dialetti e italiano, 2002, Il mulino
Claudio Marazzini, La lingua italiana, 2010, Il mulino
Patricia Bianchi, Nicola De Blasi, Rita Librandi, I’ te vurria parlà, 1993, Tullio Pironti editore
https://lellobrak.blogspot.com/2012/06/nascita-del-dialettoidioma-napoletano.html
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