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Pochi uomini ebbero una carriera politica tanto illustre e variegata come quella di Domenico Caracciolo, preclaro funzionario del regno di Napoli. Nato in Spagna da un ramo della potente famiglia napoletana, divenne giudice presso la capitale del regno in giovane età. Come prima mansione non fu gradita al Caracciolo: il suo giudizio sull’ambiente napoletano fu quasi sempre negativo, riscontrando in esso principalmente povertà, corruzione e ignoranza.

Tuttavia il suo ruolo nel foro partenopeo non fu poi così esteso: fu scelto per divenire ambasciatore del regno di Napoli presso la corte di Torino, iniziando una lunga carriera diplomatica che, seppur caratterizzata da vicende alterne, lo vedrà divenire valente ed affidabile funzionario della monarchia borbonica, forse tra i suoi migliori uomini politici.

Caracciolo
Ritratto d’epoca del marchese Domenico Caracciolo

Tra Torino, Londra e Parigi: la vita diplomatica del marchese Caracciolo

L’incarico presso la corte torinese vide il Caracciolo agire in un ambiente molto diverso da quello di Napoli. Dei Savoia apprezzò l’impegno nella costruzione di uno stato regionale moderno e, soprattutto, il loro spingere la nobiltà verso la carriera militare, specialmente tramite l’istituzione di un’importante accademia, una delle prime presso gli stati preunitari. Dei piemontesi apprezzava l’onestà e la schiettezza, denigrando tuttavia la profonda ignoranza del loro ambiente che, salvo rare eccezioni, era piuttosto disavvezzo al pensiero dei lumi.

Nel corso di tutto il suo incarico diplomatico, intraprese una fitta corrispondenza con Bernardo Tanucci, con il quale instaurò un rapporto alquanto controverso. Il Caracciolo dava spesso consigli al primo ministro napoletano, non di rado in maniera polemica e ardita, come sovente emerge dal loro epistolario. Le risposte del Tanucci, come si può ben immaginare, non erano da meno. Tuttavia da entrambe le parti vi era un reciproco riconoscimento e rispetto tanto personale quanto istituzionale, che permise al Caracciolo di compiere una vertiginosa scalata all’interno della diplomazia del Regno.

Veduta del palazzo reale di Torino in una stampa dell’epoca

Il suo incarico successivo lo vide infatti agire a Londra come diplomatico: il suo compito principale era quello di redigere un trattato commerciale con l’Inghilterra, all’epoca indiscussa regina dei commerci internazionali. Il suo impegno, per quanto valido, fu tuttavia infruttuoso: i britannici erano poco interessati alle condizioni poste dal regno, percepito come un pigmeo rispetto le ambizioni globali della grande potenza. Il ruolo ricoperto dal Caracciolo, tuttavia, gli permise di entrare in contatto con una delle società più moderne dell’Europa settecentesca.

Dell’Inghilterra ebbe giudizi alterni: comprese la sua forza e la sua modernità, non avendo tuttavia una grande stima del suo ambiente politico e intellettuale, nonché del suo clima, percepito come insopportabile. Tuttavia l’incarico inglese fu preludio di un ben maggior successo: il suo incarico diplomatico a Parigi, nel quale avrebbe affiancato il Galiani.

Veduta di Londra nel 1751

Gli anni a Parigi furono probabilmente i più felici per il marchese Caracciolo: era al centro dell’Europa, in un ambiente che, finalmente, rispecchiava le sue convinzioni morali e politiche. A Parigi Caracciolo trovò una seconda casa, forse più amata della prima, sicuramente a lui più congeniale. Amato nei circoli, ben più del suo collega Galiani, sicuramente intellettuale di maggior spicco, carente tuttavia dal punto di vista della socievolezza.

L’incarico parigino fu forse il momento per lui più felice, tuttavia ancora un ulteriore compito, sta volta ben più arduo, sarà il coronamento della sua carriera politica: la carica di viceré di Sicilia.

Parigi nel Settecento

Il marchese Caracciolo, viceré di Sicilia

La carica di viceré di Sicilia fu percepita dal Caracciolo come una sorta di punizione: l’ambiente siciliano era per lui ancor peggiore di quello napoletano, per non parlare poi dello stacco con Parigi. Tuttavia il marchese ebbe anche una fortissima cognizione del suo compito storico: portare il riformismo in Sicilia e smuoverne la società, rimasta incardinata in un assetto feudale in cui la prepotenza e l’abuso erano all’ordine del giorno.

La lotta del marchese Caracciolo contro i grandi feudatari fu a dir poco serrata e fu giocata in un articolato sistema di equilibri tra governo di Napoli, viceré e nobiltà. Nonostante la corona approvasse le iniziative del Caracciolo, era costretta spesso, sotto suppliche della nobiltà siciliana, a fermare l’azione del marchese, percepita spesso come troppo radicale.

Cartina seicentesca della Sicilia

Il marchese Caracciolo odiava l’ambiente baronale e cercò in tutti i modi di limitarne i privilegi e le prerogative, con risultati alterni. La battaglia più importante da lui intrapresa fu quella per redigere un catasto dei beni dell’isola che, seppur non avvenne sotto il suo governo, visto l’ostruzionismo dei nobili siciliani, fu forse tra le più grandi vittorie del riformismo borbonico.

Il marchese cercò di svilire quanto più possibile il potere, anche simbolico, del baronaggio: impose infatti che, nei loro feudi, i baroni esponessero un quadro del re, ove invece spesso esponevano un proprio ritratto, andando espressamente contro i decreti regi.

Silvio Sannino

Veduta settecentesca di Palermo

La sua più grande conquista fu forse l’abolizione del tribunale dell’Inquisizione sull’isola, che gli guadagnò una fama internazionale degna dei più grandi diplomatici europei. In Sicilia, il Caracciolo cercò anche di rinnovare l’ambiente intellettuale, arricchendo l’università e sovvenzionando i pensatori più illustri e moderni, come il giurista Francesco Paolo Di Blasi, al quale fu affidata una riedizione delle “Prammatiche del regno di Sicilia” il cui scopo era quello di svilire e limitare quanto più possibile i privilegi dei baroni.

La carica di viceré lo vide agire con diligenza, forza e astuzia per ben un quinquennio, dal 1781 al 1786. Fu senza dubbio il suo compito più illustre, ma lo sfiancò dal punto di vista personale. Le reticenze al rinnovamento erano ancora troppo forti. Il suo regno, tuttavia, fu il preludio di grandi cambiamenti nell’isola, e il marchese ne guadagnò una carica ancora più illustre: quella di primo ministro del regno di Napoli.

Veduta settecentesca della cattedrale di Palermo

Domenico Caracciolo primo ministro

La carica di primo ministro fu forse per l’ormai ex viceré una sorta di premio per la fine di un’illustre carriera. La corte di Napoli era ormai animata da forze nuove: il futuro primo ministro lord Acton e la regina, Maria Carolina, personaggi troppo influenti per poter dare un più ampio spazio a un uomo che, seppur instancabile e a dir poco lungimirante, era ormai anziano, avendo iniziato la sua carriera addirittura ai tempi del primo ministro Tanucci.

Tuttavia il periodo della sua carica non fu in alcun modo privo di grandi eventi, anzi. Cercò di migliorare la burocrazia del regno, e di cementificarne la dimensione mediterranea tramite l’instaurazione di un articolato sistema di uffici postali che, partendo addirittura da Costantinopoli (l’odierna Istanbul) avrebbe dovuto unire le due sponde del Mediterraneo, sfruttando la posizione strategica del regno.

Il progetto non ebbe grande seguito, tuttavia dimostra per l’ennesima volta la lungimiranza dell’azione politica del Caracciolo, coronata infine da un ulteriore, grande successo. Sotto la sua carica, infatti, fu finalmente abolito l’omaggio della Chinea, che il re di Napoli era tenuto a compiere annualmente in virtù dei suoi vincoli feudali con la Santa Sede. Fu questo uno degli ultimi, grandi contributi del marchese alla modernità politica del Meridione. Morì infatti un anno dopo l’abolizione della Chinea, nel 1789.

Domenico Caracciolo
Veduta settecentesca del Palazzo Reale

Bibliografia

Campbell A., Sicily and the Enlightement, The World of Domenico Caracciolo, Thinker and Reformer, I. B. Taurus, Derby, 2016.

Croce B., Uomini e cose della vecchia Italia, secondo volume, Bari, Laterza, 1943.

Lioy G., L’abolizione dell’omaggio della Chinea, «ANSP», 7, 2 (1882), pp. 201-262; 7, 3 (1882), pp. 497-530; 7, 4 (1882), pp. 713-775.

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