La toponomastica di Napoli è ricchissima di soprannomi, curiosità e stranezze: se le strade hanno i nomi che conosciamo oggi, dobbiamo ringraziare Ferdinando IV.
Ognuno di noi ha legato infatti ricordi o ispirazioni ai nomi di una strada, dai nomi dei locali ad Edoardo Bennato, che ad esempio ha fatto di “Campi Flegrei 55” la storia della sua vita personale e musicale, ma potremmo raccontare decine di episodi, dalle leggende di streghe e amori in Vico Pensiero ai lupi mannari di Cupa fosso del Lupo, arrivando a nomi strani e storpiati come Vico Maria Monnezza e Vico Pidocchi.
Gino Doria, GIanni Infusino e Romualdo Marrone sono gli studiosi che dedicarono tutta la propria vita alla ricostruzione delle storie dei nomi delle antiche strade della città, di fatto salvando tutte le storie e le leggende del popolo che oggi avremmo dimenticato e che, senza di queste, vivremmo fra nomi vuoti, decisi da commissioni e opportunità politiche.
Ma partiamo da una domanda: chi ha messo per primo le targhe che hanno codificato la toponomastica di Napoli?
Ferdinando IV e le targhe della toponomastica stradale
L’anno era il 1792 e Ferdinando IV di Borbone, per primo nella storia del Regno delle Due Sicilie, con un editto stabilì la creazione dei numeri civici e delle targhe che avrebbero dovuto accompagnare i viaggiatori. Fu una soluzione giunta in ritardo di circa 6 anni rispetto a Milano, che invece fu la prima città d’Italia a realizzare una mappatura delle strade e la numerazione delle case, seguita da Firenze dopo pochi mesi.
Non c’era ancora la parola “Via: a Napoli era in uso “strada“. Al centro storico troviamo infatti ancora diverse targhe che portano il nome “Strada Santa Chiara“, “Strada Pazzariello” o pochi altri sopravvissuti dell’antichissima denominazione borbonica.
All’epoca la soluzione fu scontata: semplicemente limitarsi a ratificare i nomi e nomignoli che il popolo aveva dato alle varie strade, che spesso erano legati alla presenza di un albero, di una chiesa o di qualche oggetto anomalo che la caratterizzava. Altre strade invece avevano dei soprannomi entrati nel gergo collettivo in modo talmente naturale che ormai nessuno sapeva più nemmeno a cosa ci si riferisse: pensiamo ad esempio ai vari Vico Fantasia, Belledonne e Belli Uomini, Vico Molino dell’Inferno e tantissime altre denominazioni di cui purtroppo possiamo solo immaginare storie.
Altri nomi ancora furono storpiati dal popolo nei secoli, per abitudine o sfottò. Furono anche quelli ufficializzati dalla commissione di Ferdinando: Vico Pisciaturo, Vico Monnezza e Vico Zoccole e Vico Pidocchi erano solo alcuni dei tantissimi nomi volgari che entrarono nei documenti ufficiali. E così rimasero fino al 1861.
La toponomastica di Napoli: quando la politica voleva cambiare la Storia
Ci furono tanti tentativi di cambiamento della toponomastica di Napoli. Se infatti Ferdinando IV di Borbone aveva sottovalutato l’importanza politica dei nomi delle strade (il suo provvedimento era infatti giustificato per “risolvere dispute fra i cittadini” e per aiutare le forze di polizia e postali), lo stesso non si potrà dire per i rivoluzionari del 1799, che invece stilarono il folle progetto di cambiare completamente i nomi di tutti i monumenti cittadini.
Lo propose un tale Pietro Natale Alety, nel suo giornale “Il Veditore Repubblicano“, pubblicato nel 1799: a suo avviso bisognava eliminare ogni nome del passato.
La prima vittima? Come sempre, Via Toledo. Avrebbe dovuto chiamarsi “Strada del Gran Patto”. Ci penseranno 80 anni dopo a trasformarla in “Via Roma“, fino al 1981.
Anche i castelli di Napoli avrebbero dovuto cambiare nome con termini repubblicani: Castel Nuovo sarebbe diventato “Castello del Furore“, il Castello del Carmine “Castello della Vittoria” (ironico pensare che oggi è stato raso al suolo!), Castel dell’Ovo “Castello della Quiete” e Castel Sant’Elmo sarebbe diventato il “Castello della Gioventù“.
Per non parlare dei quartieri: Avvocata, Montecalvario e Vomero sarebbero diventati Montelibero; Vicaria e S. Antonio Abate li avremmo dovuti chiamare Umanità; Porto e Mercato avrebbero preso il nome di Masaniello; Arenaccia e Maddalena sarebbero diventati Sebeto; Stella e Capodimonte, Giannone; San Ferdinando e Chiaia, Sannazaro.
Così, de botto, senza senso.
Il progetto non fu portato a termine, come è evidente. Differente fu invece la sorte delle strade di Napoli durante gli ultimi stravolgimenti politici: dopo il 1861 avvenne la prima epurazione di tutti i nomi borbonici, fra lo scandalo anche di diversi intellettuali filounitari che criticavano aspramente l’entusiasmo iconoclasta di quei tempi, che di fatto andava a cancellare la storia.
Per non avere alcun dubbio, allora, si procedette con il Risanamento che rase completamente al suolo l’intero quartiere medievale di Napoli, di fatto costruendo un nuovo centro storico, tre nuovi quartieri borghesi e una nuova zona portuale della città. Fu nominata nel 1890 una commissione di toponomastica presieduta da Bartolommeo Capasso, con un giovanissimo Benedetto Croce, che decise di dare nuovi nomi a tutte le strade. Stavolta, però, rispettando la Storia di Napoli.
Se il Vomero è stato un’esperienza felice, con un intero quartiere dedicato agli artisti napoletani, il nuovo Corso Umberto e altre zone del centro storico furono invece rinominate in favore di politici torinesi o dedicate agli uomini che morirono per la causa unitaria, da Largo delle Pigne diventato Piazza Cavour a Corso Maria Teresa, diventato Corso Vittorio Emanuele, senza dimenticare Corso Basile che diventò Via dei Mille. L’esempio più eclatante è poi quello di Piazza dei Martiri, che un tempo era la borbonica Piazza della Pace.
Come ci si orientava prima degli stradari?
Oggi ci basta un “ok google” e usiamo l’app di navigazione per orientarci ovunque. Fino ai primi anni 2000, con i cellulari e le costosissime tariffe telefoniche, ci aiutavano gli stradari e ancor prima c’era qualche mappa di quartiere per aiutarci o, in estrema ratio, la classica e intramontabile indicazione dei residenti.
Immergiamoci in epoche lontanissime: spesso i viaggiatori, giungendo in città, erano costretti ad orientarsi per trovare una sistemazione. Molti vicoli avevano anche più soprannomi presso il popolo ed i viaggi nelle grandi città come Napoli erano impossibili da realizzare in autonomia senza una guida o un ottimo senso dell’orientamento.
Per risolvere questo problema, all’interno di Palazzo San Giacomo fu istituito in epoca Borbonica un ufficio delle direzioni, dove il viaggiatore poteva chiedere informazioni sui viaggi da effettuare da e verso Napoli.
In questo caso Ferdinando IV fece realizzare un’opera straordinaria, raccogliendo un’eredità politica lasciata da Bernardo Tanucci che non riuscì a realizzarla quand’era al potere (anche perché durante il regno di Ferdinando, quasi tutte le iniziative di Tanucci furono bloccate più per odio politico che per raziocinio): l’Atlante Geografico del Regno di Napoli, cominciato nel 1790 e finito nel 1808.
Fu realizzato dal padovano Giovanni Antonio Rizzi Zannoni, considerato il migliore cartografo del suo tempo. In 18 anni riuscì a completare l’intera mappa del Regno, dagli Abruzzi alla Calabria. In particolar modo si concentrò su Napoli, realizzando il primo storico stradario della città. Si può consultare qui.
Insomma, non consideriamoci sfortunati se siamo nati in qualche strada dal nome curioso, di quelli che spesso fanno impazzire i corrieri e i riders.
Viviamo probabilmente in una pagina straordinaria di un gigantesco libro urbano fatto di politica, storia, racconti, vite straordinarie e leggende riassunte in una o due parole dopo la scritta “via”.
-Federico Quagliuolo
Riferimenti:
Gino Doria, Le strade di Napoli, Ricciardi, Milano, 1982
Francesco De Bourcard, Usi e costumi di Napoli
Romualdo Marrone, Le strade di Napoli, Newton Compton, Roma, 1997
Giancarlo Alisio, Vladimiro Valerio, Cartografia napoletana dal 1781 al 1889, Prismi, Napoli, 1983
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