Il più antico canto popolare della musica napoletana è “il canto delle lavandaie del Vomero” e risale circa al XIII secolo, più o meno ottocento anni fa. Si tratta di una canzone dal valore inestimabile rievocata negli anni ’60 da Ettore De Mura e Roberto Murolo, poi musicata da Roberto De Simone.
È emozionante pensare che questa canzone medievale, così pura e semplice, sia sopravvissuta intatta grazie solo alla tradizione orale del popolo.
Il canto delle lavandaie del Vomero, una nascita bucolica
Sembra stranissimo: all’epoca il Vomero nemmeno era parte della città di Napoli e l’unico edificio degno di nota era la piccola fortificazione al posto di Castel Sant’Elmo. La collina era infatti percorsa solo dalla “Strada del Vomero”, erede della Puteolis Neapolim per Colles, e c’erano poche case sparse di agricoltori.
Il canto delle lavandaie del Vomero nel suo testo è semplicissimo, ma già perfettamente carico di tutti quei sentimenti malinconici e delicati tipici della canzone e della poesia napoletana.
Tu m’aje prommiso quatto moccatora
Oje moccatora, oje moccatora!
Io so’ venuto se, io so’ venuto
Se me lo vuo’ dare
Me lo vuo’ dare!
Me lo vuo’ dare!
Me lo vuo’ dare!
Me lo vuo’ dare!
E si no quatto embe’, dammenne ddoje
Oje moccatora, oje moccatora
Chillo ch’è ‘ncuollo, chillo ch’è ‘ncuollo a tte nn’e’ rroba toja
Più o meno si traduce così:
“Mi hai promesso quattro fazzoletti
Sono venuto qui, me li vuoi dare?
E se non sono quattro, allora dammene due.
Quello che porti al collo mica è roba tua!”
C’è anche chi propone una interpretazione meno ingenua di una semplice canzone popolare. Infatti la parola “moccatora“, che indica fazzoletti, potrebbe essere più figlia dello spagnolo mocador che del francese mochoir. Sarebbe quindi una protesta politica nei confronti della dominazione aragonese, in cui i contadini si lamentavano del trattamento poco corretto ricevuto dai catalani di Alfonso d’Aragona, che avevano promesso (fazzoletti di) terre e non le avevano date.
Nell’interpretazione più diretta, invece, si potrebbe parlare semplicemente di uno dei tanti canti che le lavandaie intonavano per ritmare il proprio lavoro. Nello stesso periodo ci è stata tramandata anche Jesce Sole, un’altra canzone che invece è chiaramente un’invocazione pagana sopravvissuta in quel grandissimo frullatore culturale che è la tradizione orale del popolo.
Quel che è certo è che anche Giovanni Boccaccio venne a conoscenza di questo canto e, dopo averlo ascoltato, in una lettera raccontò di essere rimasto molto affascinato.
Un’eredità straordinaria
Ci troviamo nella nella città dei Conservatori e delle musiche immortali dei vari Paisiello, Pergolesi, Bellini e del numero immenso di artisti che frequentarono la scuola musicale napoletana. Eppure, così lontana da quel centro storico così ricco di cultura, scopriamo che la collina del Vomero, nella sua purezza originale, è la culla della canzone Napoletana.
-Chiara Sarracino
Riferimenti:
Ettore De Mura, enciclopedia della canzone napoletana, Il Torchio, Napoli, 1968
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