Nella seconda metà del 1600, a Napoli, dei cavalieri presero le parti di due loro amici, che si sfidarono a duello per un motivo davvero improbabile: il possesso di una cagnetta. Questo diede il via ad una vera e propria faida, che richiese l’intervento del vicerè in persona.

Il duello a Napoli nel ‘500 e ‘600

Nella Napoli vicereale, i nobiluomini ricorrevano frequentemente alle sfide a duello per risolvere torti di ogni genere, dalle più imperdonabili onte subite alle più banali sciocchezze, che tuttavia il nobile non poteva ignorare: si sarebbe sentito sminuito da chi gli aveva fatto il più piccolo dei torti, magari involontariamente!

duello capodimonte
Alcuni strumenti da duello, esposti al Museo di Capodimonte. Foto di Leonardo Quagliuolo

Il numero di duelli divenne così esponenziale, da richiedere l’intervento di speciali direttive indette dal vicerè in persona, primo fra tutti l’intransigente Don Pedro di Toledo, che mai ebbe a genio la nobiltà napoletana e che stabilì la pena di morte per per chiunque avesse indetto nuovi duelli durante la sua reggenza, dichiarando, oltretutto, lo sfidato automaticamente esente da colpe e dal lato della ragione, come per aggiungere la beffa al danno.

Dato che i duelli continuavano, anzi, dopo la morte di Don Pedro addirittura aumentarono, un altro vicerè decise di prendere in mano la situazione e di cercare, come possibile, di tamponare il fenomeno: Il conte di Monterey, nel 1631, stabilì una salata multa di duemila scudi per chi avesse sfidato a duello qualcuno. Dopodichè, in caso di recidività, la pena di morte per lo sfidante.

Nel 1662, il nuovo vicerè inasprì i provvedimenti del suo predecessore, assegnando un ruolo chiave ai testimoni: sarebbe bastata una denuncia da parte di un potenziale testimone oculare della dichiarazione di sfida per far incorrere i nobili coinvolti in severe sanzioni.

Il provvedimento non fu in alcun modo preso sul serio dalla nobiltà locale, che continuò con questa malsana usanza. Il numero di duelli crebbe ancora.

Ci sono molti aneddoti, alcuni tragici, alcuni piuttosto buffi, sui duelli tra i rampolli delle più importanti e ricche famiglie nobili napoletane, come i Caracciolo, i Carafa o i Pappacoda, eppure uno dei più assurdi, narrato da Fabio Colonna di Stigliano, racconta di una sfida che coinvolse ben sedici cavalieri e che vedeva al centro della contesa una cagnetta!

Una cagnetta per cui uccidere

Il principio della vicenda nacque da un furto: la principessa Monteaguto Capece aveva una cagnetta, a cui era molto affezionata. Un giorno, un suo servitore la rubò e, al seguito di chissà quale accordo, la vendette ad un altro nobiluomo napoletano, Domenico Spinelli, che pare amasse circondarsi di animali e che desiderava con sè proprio quell’innocente bestiola.

Quando la principessa scoprì la destinazione della sua cagnetta, la chiese indietro, ma senza ricevere la risposta sperata. Sembra, infatti, che Spinelli ci si fosse già legato e che non volesse saperne di renderla alla legittima proprietaria. E non servì a nulla reiterare la richiesta di restituzione attraverso amici della principessa, che era sempre più arrabbiata per l’accaduto.

Come ultima speranza di riavere il proprio animale, la nobildonna mandò suo figlio a sfidare Spinelli a duello, nonostante fosse vietato dalla legge.

La vicenda non passò inosservata agli amici sia dei Capece che degli Spinelli, altri nomi illustri della nobiltà napoletana, che infatti si schierarono al fianco degli sfidanti, formando due vere e proprie fazioni per l’evento.

Fu stabilito un luogo d’incontro ed una figura super partes, di comune conoscenza da entrambe le parti, Ramiro Ravaschieri, avrebbe fatto da arbitro. Il duello sarebbe stato al “primo sangue”, ovvero che nonappena uno dei due avversari rimane ferito, la sfida si interrompe.

Furono sorteggiati due nomi tra le fazioni e il duello partì. Il campione del fronte dei Capece, il principe della Pietra, ebbe la meglio sul suo avversario, che fu gravemente ferito e, non molto tempo dopo, morì. L’accaduto fece scalpore e fu presto notato anche dalle autorità del Regno.

Il vicerè, quando venne a sapere dell’accaduto, prese una decisione inaspettata: avrebbe assolto i partecipanti al duello, a patto che si giurassero di essere in pace.

Il principe si ritirò nella sua villa di Posillipo, sperando che le famiglie avversarie si placassero col tempo, ma, al contrario, si legarono al dito la vicenda. Infatti, una mattina, mentre il principe passeggiava, fu accerchiato da degli abati, che altri non erano se non i suoi nemici, della fazione di Domenico Spinelli, travestiti. Tra questi c’era perfino Ravaschieri, l’arbitro del precedente duello.

I finti abati tirarono fuori degli archibugi dalle loro vesti e, in una scena degna di un film d’azione, aprirono il fuoco verso il principe.

Quest’ultimo riuscì a scansare i colpi e fu solo leggermente ferito ad un braccio.

La vicenda suscitò molte chiacchiere, al punto che uno degli assalitori del principe, Giovanni di Gennaro, per difendere a tutti i costi il proprio onore, decise di affiggere dei manifesti in città, in cui sfidava apertamente a duello chiunque sostenesse che il loro agguato fosse un gesto disonorevole per un cavaliere.

Il tribunale della Vicaria stabilì delle taglie su tutti i cavalieri che parteciparono al primo duello, quello per la cagnetta; dopodichè rettificò l’ordine a due taglie, una per Ravaschieri e l’altra per di Gennaro, promettendo l’assoluzione a chiunque li avesse consegnati, vivi o morti e disponendo un’ulteriore multa per chiunque li avesse nascosti. I due, tuttavia, lasciarono Napoli per aver salva la vita.

Si sarebbe dovuto aspettare il 1673 perchè circa quattrocento nobili napoletani firmassero un patto in cui si impegnavano a non sfidarsi più a duello.

-Leonardo Quagliuolo

Per approfondire:

Napoli d’altri tempi“, di Fabio Colonna di Stigliano, 1911

Museo di Capodimonte, Armeria

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