–Se ti svegli la mattina e senti di avere delle idee che devi realizzare, delle ossessioni da creare. Se hai questo bisogno, allora sei sicuramente un artista. –
L’arte accademica di Caravaggio e le grandi opere dei Maestri del passato vengono messe in discussione da Marina Abramovic nelle sue performance travolgenti e disperate, portate quasi all’esasperazione. Qui i sensi e le certezze vengono meno e si sbriciolano come castelli di sabbia.
Il genio destabilizzante della Prova che la donna affronta nelle sue rappresentazioni, trascina forsennata il pubblico spettatore fino al suo annichilimento, l’uditorio perde il proprio ruolo e si ritrova al centro della scena come protagonista, costretto ad affrontare le sue tragedie e le sue paure più aberranti.
In questa nuova e viscerale Arte non c’è più spazio per i pennelli e i colori, è il corpo dell’artista ad assumere la veste della tela, esso è cera liquida nelle mani della platea. Le emozioni del pubblico rimbombano disgraziate con il susseguirsi del ritmo incalzante dell’esibizione, il tutto lascia attoniti e sconvolti, angosciati.
Marina Abramovic è infatti tra le artiste contemporanee più famose e discusse al mondo. La sua arte è stata definita più volte disturbante e complessa da digerire, maturare, comprendere. Originaria di Belgrado nella malinconica Serbia, ha sempre cercato di spingere se stessa oltre limiti inimmaginabili.
Le sue performance sono state negli anni un’analisi profonda di affanni e sgomenti, dettate dai turbamenti dell’anima che esplodono alla vista del dolore e dell’agonia.
Ma come reagisce il pubblico di fronte alla reale sofferenza?
–Quest’arte non è come il teatro, qui il sangue non è finto. –
Si instaura un vero e proprio dialogo tra l’artista e il pubblico, che intesse, con i propri strazi e i propri tormenti, i lembi stracciati dell’esecuzione. Vi è un susseguirsi delle vicende che in quelle poche ore prendono forma, Marina Abramovic non è altro che il mezzo per portare alla luce la brutalità degli uomini, la loro bestialità, una dimostrazione cruda e sprezzante di quanto noi tutti siamo uguali e insignificanti.
Marina Abramovic a Napoli
Ne è una prova la sua performance più famosa: Rhytm 0 alla Galleria Studio Morra di Napoli nel 1974.
Sotto lo sguardo di visitatori confusi e impreparati, fu allestito un tavolo ricco di oggetti di diversa natura: strumenti sia di piacere che di dolore. Vi erano infatti coltelli, lame, piume e fiori, martelli, catene e una rivoltella carica. Tutto poteva essere usato sulla donna, per sei ore quest’ultima avrebbe concesso la propria carne agli spettatori: non avrebbe reagito, non avrebbe chiesto pietà, non avrebbe ostacolato la volontà del suo pubblico. Marina Abramovic decise di oltrepassare così ogni limite, portando quegli uomini e quelle donne nella Galleria Morra a chiedersi cosa avrebbero fatto, cadute tutte le barriere della formalità, ad un oggetto, e non più ad una persona.
“Il pubblico può uccidermi” dichiarò Marina Abramovic, senza fronzoli o giri di parole. Lo spettacolo era tutto lì, tra le mani di coloro che vi partecipavano, tra le decisioni di chi ha il potere, e la piena libertà di chi può scegliere la sorte della sostanza inerme davanti a sé.
L’artista diventò pura materia senza vita, senza volto. Le prime ore passarono quiete, quasi come se l’esperimento in qualche modo non avesse ancora preso consapevolezza delle proprie potenzialità. Il pubblico la osservava dagli angoli della sala, la sua figura aveva ancora un nome nei loro pensieri, era ancora la grande Marina Abramovic, artista serba, intoccabile, dignitosa. Qualcuno si avvicinava adornandole i capelli con dei fiori, accarezzandole il viso, percependo l’assoluta immobilità del suo spirito. Passò del tempo e i più coraggiosi iniziarono ad abituarsi alla sua presenza, era diventata parte della stanza e scoprirono quanto fosse facile muoverla e avere il controllo sui suoi gesti, potevano spostarla senza incontrare alcuna resistenza, ed è così che pian piano acquisirono coscienza di ciò che realmente stava accadendo.
I contatti si fecero via via sempre più invadenti, le tagliarono i vestiti per vedere fin dove si sarebbe spinta, ma ad ogni azione non vi era risposta, le iniziative non sortivano alcun effetto, per cui le provocazioni aumentarono. La curiosità prevalse sul buon senso e l’atteggiamento del pubblico man mano mutò. Usarono le lame per ferire la donna e dalla pelle lacerata alcuni succhiarono il suo sangue.
La donna inanimata fu toccata e spinta, fu baciata e legata, lacrime rigarono il suo viso ma un oggetto non può piangere no? Non esiste, non soffre, questa è un’arte dissacrante, distrugge ogni morale e lascia l’uomo davanti al proprio specchio, solo con se stesso per osservare il mostro che è. La bestia che straripa appena gli argini si fanno più fragili e sottili.
Questo vortice di violenza inarrestabile vide successivamente la nascita di due gruppi: quello degli Istigatori e quello dei Protettori. Il barlume di umanità da una parte e quello della la bestialità più profonda, istintiva e feroce dall’altra.
Allo scoccare delle sei ore una rivoltella carica le era puntata alle tempie, fu salvata e portata via, e tremante, disperata raccolse se stessa e tutto ciò che era rimasto della sua psiche. Si maledisse per essersi spinta oltre qualsiasi sopportazione, per aver accettato di farsi fare tutto questo. Pianse a lungo, ma al suo ritorno nella Galleria la vergogna divagò tra gli spettatori come una malattia lancinante. Tutto assunse il più osceno dei significati: la persona che avevano torturato per sei ore era lì davanti a loro, si sentirono colpevoli, furono colpevoli, trascinati dall’effetto branco, non furono mai più gli stessi.
-Arianna Giannetti
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