La peste a Napoli del 1656 fu l’epidemia più drammatica della Storia della città: in soli 10 mesi morì più della metà della popolazione.
Fu una tragedia di tali dimensioni che non abbiamo idea di quante persone siano morte: c’è chi dice 600.000 (ma è ben oltre il numero dei cittadini napoletani dell’epoca) e chi si limita ad un più prudente 250.000. Quel che è certo è che ad un certo punto non furono più annotati i decessi perché morirono anche quelli che dovevano tenerne traccia.
Si racconta che dopo il flagello interi quartieri rimasero completamente disabitati. A ben pensarci, ancora oggi camminiamo e viviamo in palazzi e strade costruiti su migliaia di morti che furono sepolti in qualsiasi luogo disponibile, includendo anche le fogne, dove furono buttati come spazzatura. I cimiteri scoppiavano e le strade erano talmente cariche di cadaveri in putrefazione che le carrozze ad un certo punto camminavano fisicamente sopra i corpi umani senza vita.
Eppure, come tutte le tragedie dell’umanità, anche la peste del 1656 cominciò con il più classico dei sentimenti dinanzi al pericolo: il negazionismo.
Ed è ancora più tragico vedere paragoni fra le restrizioni moderne e le atrocità di quattro secoli fa, come scopriremo in questa storia.
Una vecchia conoscenza
La peste non era affatto una malattia nuova in Europa. Era infatti un flagello che spariva e tornava sin dal VI secolo d.C. Si risolveva con una malattia che nell’80% dei casi era mortale e in una settimana finiva il suo ospite fra atroci sofferenze: vomito, vertigini, bubboni, febbri altissime e deliri. Non c’era classe sociale libera e, dopo aver sterminato buona parte della popolazione europea nel ‘300, tornò in vari territori a macchia di leopardo, come ad esempio nel caso di Milano nel 1629, come ci racconta Manzoni.
Non c’erano misure di contenimento efficaci: ci si affidava alla bontà di Dio. E Napoli, che aveva circa 450.000 abitanti ed era una delle città più popolose d’Europa, invocò praticamente tutti i santi, come ci testimoniano le decine di strade e statue intitolate ai futuri patroni della città.
“Cito, longe, tarde” (fuggi presto, vai lontano, torna più tardi che puoi)
L’unica ricetta per salvarsi dalla Peste riassunta in un detto
La diffusione disastrosa
Che ci fosse la possibilità di un’epidemia era cosa risaputa da anni. Nel 1619 gli Eletti fecero costruire un “purgaturo“, ovvero un lazzaretto, dalle parti di Nisida. Fu istituita anche una Delegazione della Peste con il compito di mettere in quarantena i casi sospetti di tutte le navi che giungevano dall’estero. Poi arrivò la notizia della peste di Milano. Il morbo era alle porte, ma le distanze all’epoca erano enormi e non si guardava la situazione con particolare preoccupazione. Per giunta le conoscenze dell’epoca non potevano far immaginare che il vettore fossero i ratti e le loro pulci, dato che la convivenza con le “zoccole” era praticamente cosa di tutti i giorni nei fondaci napoletani.
Arrivarono i primi casi sospetti a gennaio del 1656 e l’allarme fu lanciato a febbraio dal medico Giuseppe Bozzuto, che diagnosticò ufficialmente il primo caso ufficiale. Di tutta risposta, fu incarcerato per procurato allarme e morì di peste in gattabuia.
Tutto tacque per mesi e nessuno ha mai capito il perché, anche se certamente le misure di prevenzione dell’epoca erano pressoché inutili: basterà pensare che i medici si proteggevano con maschere contenenti spugne o tamponi imbevuti di elementi naturali “protettivi”.
Secondo Salvatore Di Giacomo, la notizia di una peste in città avrebbe danneggiato lo sforzo militare dell’Impero Spagnolo in Lombardia contro i francesi. Altri pensano che invece si scelse il silenzio per evitare che Napoli venisse tagliata fuori dalle rotte commerciali, eventualità che sarebbe stata drammatica: la città stava cercando ancora di riprendersi dalle rivolte del 1647 con Masaniello e non avrebbe retto un nuovo colpo alla sua fragile economia.
Qualsiasi sia stata la causa del silenzio, però, la città arrivò impreparata all’appuntamento col destino. E fu un’apocalisse.
Quando infatti fu ammessa pubblicamente l’esistenza della peste a Napoli era ormai maggio, ma il silenzio dei mesi passati non aveva lasciato indifferente il popolo. Già da mesi ogni giorno centinaia di persone lasciavano Napoli per scappare nei paesi vicini, diffondendo la peste praticamente ovunque e senza controllo.
Sostegni, religione e lockdown
Ancora più ritardatario fu il cordone sanitario del Tribunale della Salute: i suoi componenti venivano sostituiti ogni settimana, dato che morivano di continuo. E quando fu imposto il divieto ai cittadini di lasciare la città, era ormai troppo tardi.
Mentre la morte girava per la città, il popolo si chiudeva nelle case. Letteralmente: quando qualcuno era individuato come appestato, lo si chiudeva in casa mettendo spranghe e catenacci alla porta. Poi si indicava la presenza dell’ammalato con una croce bianca e, ogni giorno, gli si passava del cibo con un paniere che veniva disinfettato con l’aceto.
Si cominciò a proibire di tutto, dal bere l’acqua dai pozzi al vendere cose da mangiare. Poi, dopo aver chiuso la città di Napoli, si decise di chiudere addirittura i quartieri: nessuno poteva muoversi da un quartiere all’altro con pena di morte “da esigersi immediatamente“. L’unico problema è che erano permesse le processioni religiose, che aumentavano il numero di contagi in modo smisurato.
E fu così che nella città, con le strade dall’aria irrespirabile per la presenza di cadaveri, si aggiravano solamente medici, soldati spagnoli e monatti. E i volti erano sempre diversi, dato che morivano continuamente.
In tutto questo caos il cardinale Ascanio Filomarino, che fu indicato dal Papa come esempio di fede e coraggio, esortò gli uomini di Chiesa a non abbandonare le parrocchie per rimanere in mezzo agli ammalati e dare il buon esempio. Poi inviò una lettera a suo nipote, un giovane frate teatino che lavorava nel lazzaretto di San Gennaro, obbligandolo a fuggire il più lontano da Napoli per mettersi in salvo.
Lui, invece, si chiuse in ritiro spirituale a San Martino.
Complottismi, violenze e untori
All’inizio del contagio, la Chiesa incalzava più che mai: i predicatori giravano per le strade della città ammonendo i cittadini di star sereni: il morbo era “un avviso salutare. Tutte le sventure sono il prodotto dei peccati del popolo ed effetto della giusta ira di Dio“. Insomma: le persone pie e timorate di Dio si sarebbero salvate, mentre i peccatori no. Evidentemente qualcosa andò storto nella giustizia divina invocata dagli uomini.
Al governo stava benissimo questa lettura delle cose e così molti religiosi cominciarono a spiegare ai cittadini impauriti che la peste era un flagello lanciato su Napoli per punire quelli che si erano ribellati al governo dei viceré. Ma queste storie erano solo un contorno colorito ad un vero problema: la tensione sociale era a livelli tali che bastava un nonnulla per finire in violenza, come ad esempio l’elemosina fatta dal re per aiutare i poveri, che finiva con risse e resse colossali sotto il Monte della Misericordia.
Cominciarono a nascere le storie di fantasia più disparate: ogni giorno c’erano avvistamenti di untori, streghe e maghi. Alcune volte si eseguivano vendette private travestite da denunce: c’è ad esempio il caso di una donna con un bambino che litigò con un commerciante per il prezzo troppo alto della merce. Lui, di tutta risposta, urlò dicendo di averla vista cacciar dal seno alcune polveri magiche.
Fu un attimo: il popolo inferocito uscì da ogni dove e cominciò a picchiare la povera donna con una violenza tale da smembrarla fisicamente assieme al povero bambino. E poi ciò che rimaneva di lei e del bambino fu gettato giù dal Ponte della Maddalena. Il crimine attirò altra violenza: gli Spagnoli impiccarono a Piazza Mercato gli aizzatori della folla contro la donna.
Per giunta il popolo cominciò ad affidarsi ad ogni rimedio per salvarsi dalla peste: era sottile la linea che divideva i maghi e le streghe, considerati cattivi, dagli inciarmatori e occhiarole, che erano ben accolti perché proponevano magie per difendersi dal contagio. E allora si vedevano girare in città persone con pezzi di pece accesi fra le mani, amuleti con pezzi di animali o piante, si respirava tenendo in bocca le cose più strane, dalle scorze di limone alle pietre incantate.
I rimedi della medicina, d’altronde, erano considerati inutili o finti (e quasi tutti davvero lo erano). E allora meglio dedicarsi alla magia. Oppure chiedere l’intervento divino, con una colossale processione organizzata per chiedere il perdono di Dio che, come risultato, diffuse ancora di più il morbo.
Una città spopolata
La storia dell’attuale Via Basilio Puoti riassume bene le proporzioni della tragedia. In origine fu soprannominata “Vico dei Sei” perché era strano che in una sola strada fossero sopravvissute addirittura sei persone. Carlo Celano dice che, al solo ricordo di quei giorni, non riesce a trattenere le lacrime mentre scrive.
Lo stesso scrittore racconta infatti alcuni dettagli che vanno ben oltre la fantasia di un film horror: i cadaveri, infatti, erano talmente tanti che a un certo punto i becchini decisero di gettarli nelle fogne. E il chiavicone, la cloaca massima coperta da Via Toledo che giungeva all’altezza dell’attuale Via Caracciolo, diventò una fossa comune.
I cittadini non furono più virtuosi: cominciarono a buttare nei pozzi qualsiasi oggetto sospetto di contagio, dai materassi ai vestiti, compresa la mobilia di casa. Inutile dire che le condotte fognarie esplosero in occasione della prima pioggia torrenziale, riversando per le strade della città ogni sorta di orrore.
I morti, poi, furono ammassati nelle cave di Napoli: dal cimitero delle Fontanelle alla Grotta degli Sportiglioni, sotto Poggioreale. Ma si hanno notizie anche di numerose fosse comuni e di sepolture illecite fatte nottetempo in qualsiasi luogo potesse contenere un cadavere.
La fine della peste a Napoli
Sul finire di agosto 1656 la città era ridotta in brandelli in termini sociali, economici e demografici. Il caldo dell’estate. Eppure una lunghissima pioggia incessante che caratterizzò la fine del mese fu il momento simbolico in cui la peste si allontanò da Napoli.
A settembre i sopravvissuti festeggiarono con un gigantesco bagno a mare, in quel classico clima di festa che stride con l’orrore di una città distrutta e spopolata. D’altronde, De Filippo in Napoli Milionaria ci insegna che nemmeno la II Guerra Mondiale strappò al popolo la sua voglia di dimenticare ed esorcizzare il male.
Già che nun simmo muorte co’ la pesta
Un canto popolare
Sempre volimmo fa bazzarra e festa!
E fu così che, l’8 dicembre, finalmente, si dichiarò estinta la peste a Napoli. Si aprì subito dopo la lotta fra Gesuiti e Teatini: ognuno affermava che il “proprio” santo aveva allontanato la peste. Gli ultimi eressero a Piazza San Gaetano la statua del santo teatino, per ricordare che era stato lui e non altri a salvare Napoli dal flagello.
Per dare un’idea concreta delle conseguenze della peste a Napoli del 1656, dovremmo fare lo sforzo di immaginare una città quasi disabitata: se si mantenesse il rapporto di morti\popolazione con un confronto attuale, avremmo pianto oggi poco meno di 700.000 lutti nel solo perimetro cittadino, praticamente avremmo avanti una città simile a quella delle notti di lockdown di marzo 2020. Ma con le case vuote. Una situazione da survival horror.
La storia di quella che fu percepita dai napoletani come il giorno del Giudizio Universale è stata rievocata spesso in tempi di coronavirus. Soprattutto quando, senza alcuna vergogna, si sprecano paragoni con guerre ed epidemie di peste nera, senza sapere di aver offeso i morti che, con buona probabilità, ancora si trovano sotto i nostri piedi.
-Federico Quagliuolo
Fonte principale: la dettagliatissima storia scritta da Emilio Bonaiti
Ulteriori riferimenti:
Eduardo Nappi, Aspetti della società e dell’economia napoletana durante la peste del 1656, Edizioni Banco di Napoli
Carlo Celano, Notizie del Bello, dell’Antico, del Curioso della città di Napoli, a cura di Gianpasquale Greco, Rogiosi Editore, Napoli, 2018
Salvatore De Renzi, Napoli nell’anno 1656, Tipografia di Domenico De Pascale, Napoli, 1867
Lascia un commento