Un comunista napoletano al centro della storia

La storia dei rapporti tra i segretari generali del Partito Comunista dell’Unione Sovietica e Napoli è scritta tutta nel destino di un uomo: Giorgio Napolitano. Nato nel quartiere di Chiaia il 29 giugno 1925, questo giovane di buona famiglia borghese – il padre era un avvocato liberale, la madre apparteneva alla nobiltà piemontese – avrebbe incarnato come nessun altro i paradossi di un’epoca in cui l’ideologia comunista attraversava i salotti napoletani per arrivare fino al Cremlino.

La parabola di Napolitano racconta molto di più di una biografia individuale: è lo specchio fedele di come Napoli e la Campania abbiano vissuto i rapporti con l’Unione Sovietica, oscillando tra fascino ideologico e realismo politico, tra sogni rivoluzionari e necessità diplomatiche. È la storia di un territorio che ha sempre guardato a Oriente con curiosità, ma senza mai perdere di vista l’Occidente.

Gli anni della formazione: da fascista a comunista

Il paradosso napoletano inizia proprio negli anni giovanili di Napolitano. Nel 1942, iscrittosi all’Università Federico II per studiare Giurisprudenza, il giovane Giorgio militava nei Gruppi Universitari Fascisti. Ma i GUF napoletani erano un ambiente particolare: come lui stesso avrebbe raccontato, costituivano “un vero vivaio di energie intellettuali antifasciste, mascherate e in una certa misura tollerate”.

Era la Napoli del paradosso, città che aveva sempre vissuto di contraddizioni: formalmente fascista ma sostanzialmente refrattaria al regime, borghese ma con un proletariato combattivo, meridionale ma cosmopolita. In quell’università Napolitano incontrava altri giovani che, come lui, stavano maturando una coscienza antifascista sotto la copertura delle organizzazioni del regime. Pietro Ingrao, futuro dirigente comunista, percorreva la stessa strada in quegli anni.

Nel 1944, con l’arrivo degli Alleati a Napoli, il giovane Napolitano partecipò attivamente alla Resistenza. Fu lui, insieme ad altri comunisti napoletani come Mario Palermo e Maurizio Valenzi, a preparare l’arrivo in città di Palmiro Togliatti, il segretario del PCI che rientrava dall’esilio moscovita. Era l’aprile 1944, e per la prima volta Napoli si trovava a fare i conti diretti con un uomo che aveva vissuto per anni nel cuore dell’Unione Sovietica staliniana.

Il ‘56: l’anno che cambiò tutto

Il 1956 fu l’anno della verità per i comunisti di tutto il mondo, e Napoli non fece eccezione. Il 25 febbraio, al XX Congresso del PCUS, Nikita Krusciov pronunciò il suo famoso “rapporto segreto” in cui denunciava i crimini di Stalin. La notizia arrivò a Napoli come un terremoto politico e morale.

Napolitano, che in quegli anni era già membro del Comitato Centrale del PCI e aveva responsabilità nella federazione di Caserta, si trovò al centro di un dramma di coscienza. Come molti dirigenti comunisti italiani, aveva sempre guardato all’Unione Sovietica come alla patria del socialismo, il faro che illuminava la strada verso la giustizia sociale. Scoprire che quello stesso faro era macchiato di sangue innocente fu uno shock devastante.

Ma il vero banco di prova arrivò nell’autunno dello stesso anno, con la rivolta ungherese. Quando i carri armati sovietici entrarono a Budapest per schiacciare la rivolta dei giovani studenti e operai ungheresi, il PCI si trovò di fronte a una scelta drammatica. Togliatti, sostenuto da Napolitano e da gran parte della dirigenza, scelse di appoggiare l’intervento sovietico, definendo i rivoltosi “teppisti” e “provocatori”.

Questa decisione costò cara al PCI napoletano. Molti intellettuali e militanti di base abbandonarono il partito, disgustati dalla solidarietà con la repressione. Napolitano stesso, anni dopo, avrebbe ammesso di aver vissuto quei giorni come un “tormento autocritico doloroso”, riconoscendo di aver sbagliato. Ma nel 1956 la disciplina di partito prevalse sulla coscienza individuale.

Gli anni dell’apertura: quando Mosca scoprì l’Italia

Paradossalmente, proprio la crisi del 1956 aprì nuove possibilità di dialogo tra l’Unione Sovietica e l’Italia. Krusciov, nella sua politica di “coesistenza pacifica”, aveva capito che era necessario diversificare i rapporti con l’Occidente, non limitandosi più al canale del PCI ma aprendo relazioni dirette con il governo italiano.

Il primo segnale di questa nuova fase furono gli accordi commerciali firmati nel dicembre 1957. Ma il momento culminante fu la visita in URSS del presidente Antonio Gronchi nel febbraio 1960. Quella missione si concluse con un episodio che fece il giro del mondo: durante un ricevimento all’ambasciata italiana a Mosca, Krusciov si lasciò andare a un furioso attacco contro la politica italiana, accusando l’Italia di essere un “paese satellite degli americani”.

L’episodio rivelò quanto fosse difficile il dialogo tra due mondi così diversi. Ma rivelò anche quanto la leadership sovietica fosse interessata all’Italia, considerata un anello debole della catena atlantica e un possibile ponte verso l’Europa occidentale.

L’era Gorbačëv: l’ultimo incontro

Il capitolo più significativo dei rapporti tra i leader sovietici e l’Italia si scrisse negli anni Ottanta, con l’avvento di Michail Gorbačëv. Il nuovo segretario generale del PCUS rappresentava tutto ciò che Napolitano e la sua corrente “migliorista” avevano sempre sognato: un comunista riformatore, aperto al dialogo con l’Occidente, nemico del dogmatismo.

Nel 1987 Gorbačëv ricevette al Cremlino una delegazione del PCI guidata dal segretario nazionale Alessandro Natta. Tra i membri della delegazione c’era anche Giorgio Napolitano, ormai uno dei leader più influenti del partito. La foto di quell’incontro è rimasta nella storia: Gorbačëv al centro, Natta alla sua destra, Napolitano alla sua sinistra, insieme ad Alexandr Jakovlev e Antonio Rubbi.

Quell’incontro rappresentava il sogno di una generazione di comunisti italiani: vedere finalmente realizzato un socialismo dal volto umano, democratico e rispettoso dei diritti umani. Gorbačëv parlava di glasnost (trasparenza) e perestrojka (ristrutturazione), termini che risuonavano come musica alle orecchie di chi, come Napolitano, aveva sempre creduto nella possibilità di conciliare socialismo e democrazia.

Ma il sogno durò poco. Nel giro di pochi anni l’Unione Sovietica collassò, trascinando con sé tutto il movimento comunista internazionale. Il PCI stesso si sciolse nel 1991, trasformandosi nel Partito Democratico della Sinistra. Napolitano fu uno dei più convinti sostenitori di questa trasformazione, che segnò la fine definitiva del legame organico tra la sinistra italiana e Mosca.

Il paradosso napoletano

La storia dei rapporti tra Napoli e i segretari del PCUS è una storia di attrazione e repulsione, di fascino e disillusione. Napoli, città che aveva sempre vissuto di paradossi e contraddizioni, si rivelò il laboratorio perfetto per sperimentare le tensioni del comunismo occidentale.

Giorgio Napolitano incarnò tutte queste contraddizioni: comunista ma non dogmatico, internazionalista ma profondamente radicato nel territorio, fedele a Mosca ma sempre più orientato verso l’Europa e l’America. La sua biografia politica è la metafora perfetta di una città che ha sempre saputo guardare in tutte le direzioni senza mai perdere la propria identità.

Quando nel 2006 Napolitano divenne Presidente della Repubblica – il primo ex comunista a raggiungere il Quirinale – quella elezione rappresentò in qualche modo la chiusura di un cerchio. Il ragazzo di Chiaia che negli anni Quaranta sognava la rivoluzione socialista era diventato il garante della democrazia liberale. Il comunista che aveva applaudito Stalin era diventato il custode della Costituzione italiana.

L’eredità di un’epoca

Oggi, quando l’Unione Sovietica è solo un ricordo e la Russia di Putin ha ben poco a che fare con gli ideali comunisti, la storia dei rapporti tra Napoli e i segretari del PCUS appare come una pagina chiusa della storia. Ma è una pagina che merita di essere ricordata, perché racconta molto della nostra identità.

Racconta di una città che ha sempre saputo essere ponte tra culture diverse, laboratorio di idee innovative, crogiolo di contraddizioni feconde. Racconta di una generazione che ha creduto con sincerità in un ideale di giustizia sociale, anche quando quell’ideale si rivelava macchiato di sangue e oppressione.

La Napoli di oggi, città europea e mediterranea, cosmopolita e orgogliosamente locale, porta ancora dentro di sé l’eredità di quella stagione. Non negli aspetti ideologici, ormai tramontati, ma in quella capacità di guardare lontano senza perdere le proprie radici, di sognare un mondo migliore senza smettere di essere pragmatici, di accogliere le novità senza rinunciare alla propria identità.

In fondo, è questa la vera lezione che la storia di Giorgio Napolitano e del suo rapporto con i leader sovietici consegna a Napoli e alla Campania: la capacità di evolversi mantenendo la propria anima, di cambiare senza tradire se stessi, di guardare al futuro senza dimenticare il passato.


Bibliografia e riferimenti:

  • Giorgio Napolitano, “Dal PCI al Socialismo Europeo. Un’autobiografia politica”, Laterza, Bari 2005
  • Giorgio Napolitano, “Intervista sul PCI”, con Eric Hobsbawm, Laterza, Bari 1975
  • Marc Lazar, “Morto Giorgio Napolitano, un comunista meridionale diventato un grande europeo e Presidente della Repubblica”, Le Grand Continent, 2023
  • Aldo Agosti, “Palmiro Togliatti”, UTET, Torino 1996

Fonti online:

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