La Basilica di Santa Chiara è uno dei luoghi più belli del Centro Storico di Napoli. Con il suo tetto verde e la sua stazza grande, austera e incombente, è un po’ il punto cardinale del panorama della città: anche dalle terrazze di San Martino i turisti e i napoletani riescono subito a individuarla. E lei è lì, felice di essere ancora in piedi per rappresentare gli ultimi 700 anni di Napoli anche dopo un bombardamento.
Fu infatti fondata nel 1340 da Roberto d’Angiò, che fra le altre cose fu anche padre del Castel Sant’Elmo. Il progetto del Re era quello di creare la chiesa che avrebbe ospitato tutti i reali di Napoli. Un’idea che fu efficace fino al 1859.
Per giunta accanto alla chiesa, come se volesse fare una gara in termini di bellezza, c’è il chiostro maiolicato, che è uno dei gioielli più belli d’Italia.
La chiesa dei re napoletani
Inizialmente la chiesa nemmeno doveva chiamarsi “Santa Chiara”: re Roberto aveva intenzione di dedicarla inizialmente al Corpus Christi, ma fu presto affidata alle suore clarisse e, vicino, fu creato anche un edificio da destinare ai frati minori. E fu così che nel 1340, dopo soli trent’anni dall’avvio dei lavori gestiti dall’architetto Gagliardo Primario, ci fu una festa di inaugurazione solenne: il re angioino invitò 5 vescovi e 5 arcivescovi da tutte le province del Regno: Bari, Trani, Brindisi, Amalfi, Conza e poi Castellammare, Vico, Mileto, Boiano e di Muro: a leggere i nomi al giorno d’oggi, ci viene da pensare che molte di queste città oggi hanno perso l’importanza che avevano in passato. Eppure questa storia, che sembra una fotografia del medioevo, si legge ancora alla perfezione sulle scritte del lato ovest del campanile.
Il sovrano napoletano non badò a spese, letteralmente: destinò ben 3000 ducati all’anno (una cifra paragonabile oggi a svariati milioni di euro) e chiamò alcuni dei migliori artisti dell’epoca, da Giotto.
L’idea di Re Roberto era degna della sua saggezza nella politica interna: la chiesa doveva essere infatti il monumento che consacrava i sovrani angioini non più come “stranieri”, ma come napolitani a tutti gli effetti. Ironia del destino, la sua dinastia era quasi giunta al capolinea. Con buona pace degli Aragona, che scelsero San Domenico Maggiore come luogo di sepoltura, 400 anni dopo ci penseranno i Borbone di Napoli a recuperare la tradizione.
La chiesa dei Borbone
I Borbone delle Due Sicilie, gli ultimi sovrani di Napoli, decisero di riprendere la tradizione degli antichi re angioini: fu Carlo nel 1743 a designare Santa Chiara come luogo di sepoltura provvisorio, che presto diventò definitivo.
A partire da Ferdinando I, infatti, furono tutti sepolti qui, anche se Ferdinando aveva in mente la creazione di un gigantesco sacrario sotto la basilica di San Francesco di Paola. C’è anche la fotografia del funerale di Ferdinando II di Borbone proprio a Santa Chiara, che per l’occasione fu occupata da un gigantesco mausoleo dedicato al penultimo re di Napoli.
Il nuovo sepolcro dei Borbone è stato costruito solo nel 1958 nella decima cappella, un tempo dedicata a San Tommaso Apostolo. Fu una conquista che ottennero i cavalieri dell’Ordine Costantiniano di San Giorgio che, nonostante quasi 100 anni di distanza dall’Unità d’Italia, mantennero sempre vive le memorie dei sovrani napoletani in città. (in epoca fascista, nel 1926, i Borbone furono tutti spostati nei coretti della basilica). C’è anche la tomba di Carlo di Borbone (indicato come Carlo III di Spagna), anche se il re è sepolto in Spagna: la cosa si spiega per due motivi: in primis, Carlo è il capostipite della famiglia reale di Napoli, in secondo luogo è riconosciuto come il “restauratore” della tradizione a Santa Chiara.
Una storia travagliata invece è capitata a Francesco II, rimasto “esiliato” nella Chiesa dei Napoletani di Roma fino al 1984.
Ancora oggi è meta di pellegrinaggio e riunione di tantissimi gruppi neoborbonici e simpatizzanti.
La basilica di Santa Chiara non muore mai!
Era il 4 agosto 1943 e la Basilica di Santa Chiara aveva da poco festeggiato i suoi 600 anni, ma il settimo secolo di vita stava per cominciare nel modo peggiore possibile: quel giorno un bombardiere inglese sorvolò i cieli di Napoli per gettare tonnellate di bombe su Spaccanapoli, con una inutile e barbara crudeltà sui cittadini. Le sirene suonarono, i napoletani andarono a rifugiarsi negli ipogei sotto la città, come topolini in fuga dalla morte. Il bombardamento durò pochi minuti e in quegli istanti si decise la storia di Napoli, mentre un’altra bomba cadde davanti all’altare del Gesù Nuovo e non esplose, risparmiando con un miracolo un’altra tragedia.
“Se mi aprissero il cuore troverebbero due ferite insanabili: la distruzione dell’ archivio aragonese di San Paolo Belsito e l’ incendio di Santa Chiara”
Benedetto Croce
Furono 48 ore di fiamme che distrussero l’intera chiesa voluta dagli Angioini, restaurata dai Borbone e frequentata dai napoletani per sei secoli. E quel che era rimasto fra ori e argenti non sopravvisse ai saccheggi dei giorni seguenti.
Le descrizioni di Santa Chiara carica d’oro, opere d’arte di Vaccaro e marmi pregiati fatte da Celano, Summonte e da tutti gli autori del passato furono cancellate con un colpo di spugna, lasciando mattoni nudi, bruciati e sventrati, rimasti senz’anima come gli esplosivi che la distrussero.
Nel 1948 cominciò la ricostruzione. Fu strano, in tempi in cui Napoli stava cominciando ad essere ricoperta da cubi di cemento residenziali, costruire una nuova chiesa con la stessa architettura del Medioevo, ma con materiali moderni. Gli architetti incaricati e la Soprintendenza di Napoli stabilirono infatti che era impossibile (ed eccessivamente costoso) ricostruire la chiesa barocca, quindi fu ricostruita proprio come immaginata in origine dagli angioini.
Ironia della sorte, non fu completamente distrutto dai bombardamenti proprio il sepolcro monumentale di Roberto d’Angiò. I restauri l’hanno riportato allo stato originale, ma non l’hanno ricostruito da zero.
Così oggi, quando entriamo nella chiesa rinnovata, ci attende severo lo sguardo del re angioino sulla parete finale dell’edificio. E noi, in cambio, guardiamo la sua tomba e Santa Chiara proprio con gli stessi occhi orgogliosi che ebbe Re Roberto quando, nel 1340, calpestò per la prima volta il pavimento di una chiesa immortale.
-Federico Quagliuolo
Questa storia è dedicata a Massimiliano Schiattarella per la sua generosa donazione. Sostieni anche tu Storie di Napoli!
Riferimenti:
Vittorio Gleijeses, Guida di Napoli, Edizioni del Giglio, 1973
Gio. Antonio Summonte, Dell’Historia della città e Regno di Napoli, Antonio Bulifon Libraio, Napoli, 1673
P. Gaudenzio Dell’Aja, Per la traslazione in Santa Chiara di Napoli dei resti mortali degli ultimi sovrani delle Due Sicilie, Napoli, 1984
Autori Vari, Il Monastero di Santa Chiara, Napoli, Electa, 1995
Cautela, Di Mauro, Ruotolo, Napoli Sacra. Guida alle chiese della città, De Rosa, Napoli, 2013
https://www.treccani.it/enciclopedia/carlo-i-d-angio-re-di-sicilia_%28Dizionario-Biografico%29/
http://www.arteweb.eu/nuovi%20mult_beni_cult/Santa%20Chiara/12_DOPOGUERRA_NAPOLI_S.CHIARA.pdf