Il Silurificio di baia fu uno dei più importanti stabilimenti militari d’Italia. Ne erano infatti solo tre in tutto il Paese e proprio questo luogo diventò, durante l’ultima guerra, la sede di uno dei progetti d’ingegneria navale più segreti d’Italia.
Per giunta diventò il luogo in cui lavorava l’intera area flegrea: basterà pensare che nel 1943 c’erano addirittura 9000 lavoratori.
Erano impianti avanzatissimi per l’epoca, che addirittura erano sorvegliati dai servizi segreti giapponesi.
Da Fiume a Via Gianturco: l’inizio del Silurificio di Baia
La storia del silurificio di Baia, in realtà, comincia da tutt’altra parte, in un territorio che oggi nemmeno è più italiano. Nella “nostra” Fiume, che oggi si chiama Rijeka in Croazia, un imprenditore inglese di nome Robert Whitehead sul finire del XIX secolo aprì uno stabilimento per la produzione di siluri per la Regia Marina. Fu un successo tale che, in occasione dello scoppio della I Guerra Mondiale e delle tensioni nel mediterraneo, l’impianto produttivo doveva essere esteso nel resto del Paese per prepararlo alla guerra (che in effetti poi fu combattuta un anno dopo).
La zona scelta fu l’isolotto di San Martino, che un tempo era meta di pescatori e di vacanze: fu costruita una grossa struttura in cemento per la produzione di siluri, che ne realizzava circa 10 al mese. La società inglese, però, fallì e, per non perdere lo stabilimento, intervenne lo Stato Italiano, che decise di piazzarlo nella fabbrica di Gianturco, dove un tempo si producevano le automobili elettriche De Luca Daimler. Poi, pochi anni dopo, il nuovo governo fascista decise di riprendere tutti gli stabilimenti di Baia.
Il siluro napoletano
Lo stabilimento del silurificio di Baia fu un polo di eccellenza assoluta e, su tutti, due nomi fecero il giro del mondo: i napoletani Franco Smith e Carlo Calosi, due ingegneri militari. In realtà, incredibilmente, Smith nemmeno era laureato in ingegneria. Era “solo” un genio, studioso e appassionato di tecnica militare: fu infatti il progettista di un siluro estremamente efficiente, con un motore a 2 tempi e con una rapidità nel viaggio straordinaria, di gran lunga superiore alla media del suo periodo.
Fu la sua invenzione a valergli una laurea in Ingegneria honoris causa all’Università di Napoli!
Il siluro fu chiamato “Siluro Napoletano” (anche perché “Siluro Smith” poteva farlo sembrare un prodotto britannico) e negli anni ’20 era considerato fra i migliori prodotti di ingegneria militare.
Differente invece è la storia di Carlo Calosi: un professore di ingegneria elettrica che rivoluzionò l’innesco dell’esplosivo: progettò e brevettò infatti un congegno elettromagnetico che, quando il siluro passava sotto la chiglia della nave, in presenza dell’enorme massa di metallo dello scafo, si attivava e faceva esplodere istantaneamente il contenuto.
Poi inventò il siluro ruotante, che riusciva a colpire il bersaglio anche nel caso in cui si trovava in anticipo o in ritardo rispetto ai calcoli del lancio: se infatti non colpiva la nave, il siluro avrebbe cominciato a ruotare su di sé fino alla collisione con lo scafo nemico.
Questo diventò famoso come “Siluro Calosi” e fu un’eccellenza produttiva di Baia.
Un’industria strategica nazionale
La posizione del Silurificio di Baia era pressoché perfetta in termini strategici e il governo fascista lo sapeva bene: rispetto a Fiume era meno soggetto a possibili attacchi stranieri e la vicinanza con l’Italsider e con i cantieri navali di Baia era ideale.
Oltretutto c’era anche una marcia speciale: i lavoratori procidani. L’Istituto Navale di Procida, infatti, è sempre stato un’eccellenza nazionale in termini di preparazione tecnica dei suoi studenti e la manodopera professionale fu di livello elevatissimo. Fu così che nel 1934, sotto la direzione dell’ammiraglio friulano Eugenio Minisini, lo stabilimento di Baia cominciò ad ampliare vertiginosamente la produzione, assumendo manodopera specializzata da Procida e da tutti i Campi Flegrei.
Per capire le dimensioni del silurificio di Baia, dobbiamo immaginare che nel 1942 fu realizzato sulla spiaggia del Fusaro un gigantesco impianto per la fonderia e le lavorazioni meccaniche, a Baia, sotto il Castello Aragonese, venivano assemblate e montate le armi, mentre sull’Isolotto di San Martino c’era il luogo di test, il siluripedio. Gli stabilimenti erano poi collegati da una segretissima galleria sotterranea di 1300 metri, che poi diventò un luogo abbandonato nel dopoguerra.
I progetti segreti del Silurificio di Baia
L’Ammiraglio Minisini era un vulcano di idee. Letteralmente. Aveva quasi 70 anni quando diventò direttore del Silurificio, ma ragionava con l’entusiasmo di un giovane di venti: mentre infatti la produzione di siluri aumentava in maniera vertiginosa, si dedicò segretamente allo studio e alla realizzazione di nuovi sottomarini sperimentali. Li chiamò i “SA” (Sommergibile d’Assalto) ed erano minuscoli, rapidi e letali: con i loro siluri, disegnati appositamente per lo scafo particolare, erano capaci di affondare navi e sottomarini avversari senza nemmeno essere visti.
Minisini aveva infatti un desiderio: superare la supremazia bellica dei tedeschi in mare, con i loro leggendari U-Boot. Fu così che durante la II Guerra Mondiale il Governo Italiano decise di finanziare lo sviluppo di uno dei progetti più segreti della Marina Militare: SA1, soprannominato Sandokan, SA2, soprannominato Yanez, e SA3, soprannominato… kammamurì. (letteralmente: “qua dobbiamo morire” in napoletano).
Oltre alle dimensioni minuscole, ciò che faceva gola a tutti era un propulsore segreto estremamente innovativo, progettato personalmente dall’ammiraglio Minichini: grazie alle particolari caratteristiche del sottomarino e al motore avanzatissimo, il sommergibile era più veloce di qualsiasi nave allora in mare.
Abbiamo notizie dei Servizi Segreti Giapponesi che, ai tempi dell’Asse, studiarono molto attentamente lo sviluppo di queste armi e ne usarono le tecnologie per la propria flotta. Dell’ultimo sottomarino, il SA3, non sappiamo però che fine ha fatto. Sono sopravvissute solo alcune fotografie, mentre i progetti tecnici non esistono più.
Anche i suoi rottami sono spariti. Secondo alcuni fu affondato a Positano, dalle parti dell’isolotto Li Galli, per non farlo recuperare dagli Inglesi. Altri ritengono che fu distrutto dai tedeschi (che, quando si ritirarono, bombardarono con una violenza inaudita il silurificio, minando tutte le strade e gli ingressi). Altri ancora, invece, pensano che sia stato recuperato dagli Americani e, data la segretezza dell’arma, non sia stata fatta menzione nei documenti ufficiali.
Dopo l’occupazione alleata del Sud Italia, infatti, il Quartier Generale americano si interessò immediatamente ai progetti segreti del silurificio e ben pensò di smantellare e portare tutto in America, compreso l’ammiraglio Minisini che continuò a lavorare a New York.
Fra motorini e radar
Distrutti, smantellati e ridotti in macerie: gli impianti di Baia e del Fusaro, dopo la guerra, furono praticamente inutilizzabili. E con loro finirono disoccupati tutti gli ex dipendenti, lasciando l’intera zona flegrea nella disperazione e nella miseria. Fu necessario solo l’intervento dell‘IRI, l’Istituto per la Ricostruzione Industriale, per riprendere le industrie e rinconvertirle ai nuovi usi civili. E nel 1945, sul pieno entusiasmo della ricostruzione, mentre a Pontedera stava per nascere la mitica Vespa, nello stabilimento di assemblaggio dei siluri di Baia si cominciò a produrre il Paperino, un piccolo scooter due tempi destinato all’uso cittadino. Il destino dello stabilimento del Fusaro del Silurificio di Baia, invece, fu non meno interessante: diventò infatti la prima industria italiana di produzione radar con il nome di Microlambda.
L’iniziativa partì da Carlo Calosi, il professore che inventò l’omonimo siluro e che durante la guerra accompagnò Minisini negli Stati Uniti: dopo il 1945 volle tornare in Italia per rilanciare il suo territorio. E ci riuscì, dato che la Microlambda diventò fornitrice dei servizi segreti degli Stati Uniti, con radar prodotti da manodopera esclusivamente campana.
Proprio questa storia è raccontata da Vincenzo Del Forno, ex dirigente dei due stabilimenti.
La fine di un’epoca
Le avventure industriali di Baia, però, erano destinate a finire in un ventennio. Mentre il mondo sembrava continuamente sull’orlo di una nuova guerra, e le armi in preparazione non erano più “semplici” siluri, ma armamenti atomici, nel blocco occidentale scoppiava il boom economico e il benessere che portò all’urbanizzazione di tutta la costa campana.
Cominciò così l’abbandono o la riconversione degli antichi stabilimenti produttivi in luoghi di vacanza. E così Baia, che un tempo era terra di vizi e di patrizi romani, ritornò di nuovo alla sua naturale vocazione: bellezza e vacanze in riva al mare.
-Federico Quagliuolo
Riferimenti:
Rivista Marittima – Il ritorno di Sandokan (altomareblu.com)
Top Secret: sottomarini a Napoli, sommergibile SA3 Kammamuri (altomareblu.com)
Benedetto Croce e il Silurificio Whitehead di Baia – Storia – History – AIDMEN
Whitehead Torpedo: Its Origin and Italian Adaptation | Comando Supremo
Maurizio Erto, Bacoli 1919-2019, D’Amico Editore, Bacoli, 2019
Matteo marchesini, Il Navigatore, Vita nomade di Carlo Calosi, UTET, Torino, 2009
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