Furore è uno dei piccoli borghi della Costiera amalfitana e del Parco dei Monti Lattari. Arroccato sulle rocce che si gettano a mare, non riesce a mostrarsi con semplicità al turista di passaggio, venendo soprannominato “il paese che non c’è”. Resta così nascosta, tra le rocce e i gradini, la curiosa quanto suggestiva leggenda dei santi di Furore, risalente al Seicento. Tra i tanti precipizi del paesino, profondamente scosceso, sarebbero state un tempo scaraventate le statue dei santi delle parrocchie locali.
La furia iconoclasta contro i santi di Furore
L’aneddoto si pone a metà tra storia e leggenda. Nel Seicento, gli abitanti di Furore attraversarono un periodo particolarmente ostico. Pestilenze, carestie e altri cataclismi, come alluvioni e frane, colpirono il borgo.
I furoresi implorarono i santi protettori del borgo, San Giacomo, Sant’Agnello e Sant’Elia, ma le loro preghiere furono vane. Scelsero così di punire i santi per il mancato aiuto, espellendo le rispettive statue dalle chiese del paese. L’evento senza precedenti è ancora oggi ricordato da una filastrocca nota nel borgo:
“Santo Jaco, miezo pazzo,
o vottarono abbascio ‘a chiazza.
Sant’Agnelo, malandrino,
‘o vottarono dinte Pino.
Sant’ Elia, puveriello,
‘o vottarono d’a Purtella.”
I santi di Furore: Santo Jaco
Santo Jaco altro non sarebbe che San Giacomo. La sua statua lignea fu espulsa nella piazza sottostante l’antica chiesa di San Giacomo Apostolo e successivamente raccolta dalla famiglia Penna, che abitava nelle immediate vicinanze, probabilmente con l’intento di ricavarne legna da ardere e non per timore religioso.
Di notte sarebbe avvenuto il miracolo. L’indomani, i Penna si ritrovarono il giardino e il cortile pieni di legname. Per ringraziare il santo, la famiglia scavò una nicchia nel muro della casa e la statua di Santo Jaco fu accuratamente custodita lì. I Cavaliere, discendenti dei Penna, conservano ancora oggi la statua risalante al XIV secolo. La casa è stata recentemente trasformata in una struttura ricettiva e San Giacomo è tutt’ora ammirabile comodamente dalla sala adibita per la colazione. La presenza e la storia di tale statua connotano così la leggenda di un fondo di verità.
I santi di Furore: Sant’Agnelo
Sant’Agnelo, che corrisponderebbe a San Michele, fu, secondo l’adagio, lanciato nel canyon di Pino, che divenne noto anche come “la vottara”. La zona è attraversata dal sentiero di Abu Tabela, che collega San Lazzaro di Agerola con la parte alta di Furore. All’inizio del percorso si trova la falesia dell’Orrido di Pino, spettacolare sito di arrampicata sportiva, che domina la valle sottostante. La gola invece è attraversata dal fiume Schiato, che termina la sua corsa nel Fiordo di Furore.
I santi di Furore: Sant’Elia
La leggenda più misteriosa si lega invece a Sant’Elia, che sarebbe stato gettato direttamente a mare. Il lancio avvenne precisamente dalla salita Portella, dal nome della porta posta a protezione delle incursioni saracene, che collega la contrada Sant’Elia con il fiordo sottostante. La statua si sarebbe così infranta sugli scogli.
Il luogo conserva ancora oggi il nome “Int’ o’ sanghe” nel parlato, mentre la scogliera mostrerebbe, a testimonianza dell’evento, delle indelebili macchie di sangue.
Il paradiso e i miracoli di Furore
Difficile comprendere quanto sia davvero avvenuto alle statue dei santi di Furore e quanto si sia trasformato nei racconti della tradizione popolare.
La statua di San Giacomo, l’unico superstite, ascolta muta tutti gli interrogativi dei viandanti di questa terra complessa. Un luogo forse talmente speciale da non aver bisogno dei santi, da potersi permettere di conservarli in teche di vetro, poiché già paradisiaco di suo. Dove si ammirano panorami straordinari e si produce vino di altissima qualità, tra le terre strappate alla roccia.
Si ricorda che fu girato in parte a Furore l’episodio Il miracolo di Roberto Rossellini, con Anna Magnani protagonista. Il borgo si nota proprio in un piccolo oggetto di scena, ossia il fiasco di vino che ubriacherà Nannina, facendole credere di aver ricevuto un miracolo nell’esser rimasta incinta. Il fiasco usato per le riprese fu proprio preso dalla tavola di un noto ristorante locale.
Un borgo quindi abituato a raccontare miracoli, con i suoi impossibili vigneti in mezzo alle rocce e il suo strano mare, così vicino in linea d’aria ma così irraggiungibile, se si percorrono i tanti gradini che portano alla spiaggia del fiordo. Un posto forse più vicino al paradiso che alla terra. Sarà per questo che il filosofo napoletano Luciano De Crescenzo ha scelto di essere sepolto qui.
Bibliografia:
Raffaele Ferraioli; Il paese che non c’è; 2013
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