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Tutto cominciò nel XVII secolo. Forse.
Strano a dirsi, ma la storia del caffè a Napoli, uno dei simboli più famosi della città, è fatta più da dubbi e misteri che da certezze. Eppure, con la sua cuccumella e quella miscela nera e bollente che ci accompagna ogni mattina, il caffè a Napoli è diventato uno dei simboli del carattere cittadino.

La storia della bevanda è di sicure origini orientali dato che si preparava spesso durante il ramadan ma, nonostante gli antichissimi legami fra Napoli e il Medio Oriente, in realtà le strade fra i chicchi tostati più famosi al mondo e l’acqua “miracolosa” di Napoli si sono incrociate solo in tempi relativamente recenti, grazie all’influenza di Maria Carolina, moglie di Ferdinando IV di Borbone.

Caffè a Napoli cuccumella
La cuccumella, un disegno della nostra Laura Capuano

Un caffè salernitano

La prima testimonianza che parla del caffè in terra campana ce la regala la Scuola Medica Salernitana. Nei tantissimi testi scientifici prodotti dai docenti, infatti, è menzionata la pianta del caffè già nel XV secolo, quindi ai tempi degli Aragona. Questa cosa è plausibile, dato che gli aragonesi avevano numerosissimi scambi commerciali con l’oriente. Ma è anche probabile che ancora prima, ai tempi delle crociate, ci fossero state importazioni dall’oriente (che in realtà furono forzate: gli arabi erano convinti che la pianta del caffè fosse sacra e non avevano la minima intenzione di metterla in commercio). In ogni caso però fu un flop e tutto ciò che ci rimane è questa menzione in un testo di medicina, dove si suppongono alcune capacità terapeutiche.

In merito, nel rinascimento ci fu una discussione medica sugli effetti della bevanda: c’era chi diceva che procurasse addirittura impotenza e chi, invece, attribuiva ai suoi vapori poteri curativi quasi magici.

Pietro della Valle
Pietro della Valle, il primo a portare il caffè a Napoli

Un romano a Napoli

Il primo a introdurre il caffè a Napoli non fu nemmeno napoletano.

Si chiamava Pietro della Valle, come spiega Leila Mancusi Sorrentino nel suo libro “Il caffè e Napoli”, ed era originario di Roma. Era un mercante e grande viaggiatore che decise di lasciare Roma dopo una delusione d’amore. Da questo episodio sfortunato, si ritrovò a viaggiare per 12 anni in Oriente e fu lui ad apprezzare questa bevanda amarissima.
Durante questo lunghissimo tempo si tenne in contatto con i suoi amici tramite lettere e pacchetti inviati dall’estero che contenevano omaggi di ogni sorta: dai reperti ritrovati durante i suoi viaggi a semi di piante.

Proprio in questa fitta corrispondenza giunsero fra le mani del professor Mario Schipano, un medico, i primi chicchi di caffè che in modo certo arrivarono a Napoli. C’erano anche le istruzioni per produrre la bevanda: bisognava tostare i chicchi, poi ridurli in polvere e infine metterli in infusione nell’acqua bollente. Poi si poteva addolcire o arricchire con aromi.

Eppure, il primo caffè a Napoli non convinse proprio nessuno. Forse è per questa ragione che troviamo tante tracce poco documentate sparse fra i libri di Storia.

Nel frattempo, a nord, il caffè cominciò entrare nelle case nobiliari e addirittura nei palazzi reali: nel ‘600 Venezia era regina del commercio dei preziosi chicchi e non è un caso che proprio sulla riviera veneta nacque la prima caffetteria d’Italia. Contemporaneamente, poco più su, a Vienna cominciò a spopolare, poi giunse anche in Francia alla corte di Luigi XIV, che era un grande appassionato di mode straniere.

Caffè in Austria
Un caffè ottocentesco in Austria

Il caffè asburgico e la moda borbonica

Alla coppia Maria Carolina d’Asburgo e Ferdinando IV di Borbone dobbiamo una marea di innovazioni culinarie a Napoli. Se infatti il re promosse moltissimo il consumo di pomodori e patate, e fu anche uno dei maggiori sponsor della pizza, l’austera ed elegante regina importò dall’Austria numerosissime tradizioni per lo più dolciarie.
Fra tanto zucchero, però, ci tenne moltissimo anche a portare in città il caffè viennese. Siamo sul finire del ‘700 e in tutta Europa ormai la bevanda è molto diffusa e nota, mentre a Napoli cominciano ad aprire le prime caffetterie.

Grazie alla passione della regina, cominciò un’opera di marketing puro anche da parte dei tanti cuochi e intenditori di cibo: Vincenzo Corrado, nel Cuoco Galante, spiegò una tecnica di tostatura per valorizzare il sapore del caffè napoletano. Poi, di lì, grazie anche alla disponibilità dei prodotti aumentata grazie ai commerci, cominciarono ad arrivare i caffettieri ambulanti all’inizio del XIX secolo. E ancora, dopo la nascita delle prime caffetterie napoletane, cominciarono a codificarsi tutti quei rituali che oggi caratterizzano il caffè a Napoli: dalla tazzina di ceramica alla storia del caffè sospeso, arrivando alle migliaia e migliaia di citazioni in opere teatrali, letterarie e storiche.

E infine la cuccumella, la macchina da caffè napoletana che nasce come copia di un prodotto francese che realizzava il caffè con la tecnica dell’infusione. È databile intorno al 1830, ma non abbiamo informazioni precise sulla sua nascita.

Il tempo lunghissimo di preparazione diventò una scusa per fare conversazione, come ci racconta anche Luciano De Crescenzo: il caffè a Napoli non va preso di fretta, ma chiacchierando prima, mentre scende l’acqua nel filtro della cuccumella, e dopo, quando si può gustare la bevanda bollente al tavolo.

caffè a Napoli caffettiere ambulante
il caffettiere ambulante, una delle figure tipiche della Napoli antica

L’acqua di Napoli: l’ingrediente segreto?

Quel che è certo è che qualsiasi napoletano spiegherà l’eccellenza del caffè nostrano con una frase secca: è merito dell’acqua di Napoli. Lo stesso lo potremmo dire per la pizza, che si trova così buona solo in città perché è merito dell’acqua “sacra” proveniente dall’Acquedotto del Serino che ne arricchisce l’impasto.

Al netto delle visioni ridicole di Loise de Rosa, che spiegava come Napoli fosse la città più bella del mondo perché aveva acqua, aria terra e fuoco nelle qualità migliori possibili, un fondo di verità c’è. La stessa aria di Napoli fu considerata un medicinale fino al XIX secolo proprio per la sua purezza. Così si può dire per la qualità delle acque, ancora oggi fra le migliori in Italia, che in realtà provengono da Serino in provincia di Avellino.

Il caffè dell’Unità

Quando fu unita l’Italia, in effetti, il caffè fu uno dei pochi elementi che mise tutti d’accordo. E la tradizione del Nord Italia si incontrò con quella napoletana, più giovane di circa cent’anni: nacquero bar napoletani al nord e in città aprirono caffè d’ispirazione settentrionale, come il Gambrinus. Insomma: dopo sei secoli di diffidenza, improvvisamente il caffè a Napoli fu adottato ad ogni classe sociale. Il popolo poteva permettersi per pochi centesimi una tazzina del venditore ambulante, la nuova borghesia intellettuale invece cominciava ad organizzare incontri ed appuntamenti nei caffè letterari di Piazza Dante, dove bazzicavano i giovanissimi Salvatore di Giacomo e Ferdinando Russo.

I più stravaganti come Domenico Barbaja, che oggi chiameremo trendsetter, inventarono nuove ricette che spopolarono in tutta Italia: la barbajata era infatti la bevanda degli artisti e degli intenditori dell’epoca, con cioccolato, panna e caffè. Tre vizi in un solo bicchiere, mica male.

Dato il suo costo basso, il suo contenuto energetico e il sapore intenso, il caffè diventò nell’800 il simbolo della socialità in tutta Italia. Una scusa per incontrarsi e parlare con gli amici offrendo un prodotto che senz’altro piace a tutti.

Ironico pensare come cambiano i gusti!

-Federico Quagliuolo

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