Port’Alba è uno dei luoghi più caratteristici di Napoli, inconfondibile per la sua folla ad ogni ora del giorno e della notte, per le sue bancarelle di libri che occupano l’intera strada e per l’inconfondibile sapore della pizzeria più antica del mondo che, dopo 3 secoli, è ancora lì a rendere onore alla Storia culinaria di Napoli.
In realtà, se ci fossimo trovati qui nel 1625, anno della sua apertura, avremmo trovato attorno a noi tantissimi alberi di carrube. Una cosa, invece, sarebbe rimasta identica: le bancarelle che, anziché ospitare i libri, all’epoca ospitavano frutta e verdura.
Port’Alba, un nome che non piaceva ai napoletani
Si tratta di uno dei numerosi luoghi che nascono in epoca vicereale a Napoli: se in ambito sociale l’antico regno fu devastato da tanti malcostumi di epoca spagnola, in ambito urbanistico Napoli cambiò completamente il volto, essendo rimasta in alcuni punti addirittura ancora all’epoca Romana (fu servita dall’Acquedotto del Serino fino al XVI secolo!)
Quasi tutti i viceré costruirono strade e migliorarono le infrastrutture antichissime della città ed è per questo che abbiamo numerose strade che portano nomi stranieri: Via Toledo da Don Pedro di Toledo, Via Medina da Ramiro Felipe de Guzmàn, duca di Medina e, fra le tantissime, Port’Alba aperta nel 1625 da Antonio Alvarez de Toledo, V duca d’Alba.
I napoletani però furono sempre ribelli nei confronti della toponomastica ufficiale e decisero di chiamarla “Porta Sciuscella”, per la presenza di numerosissimi alberi di carrube che venivano dal vicino giardino del convento di Via San Sebastiano.
Alexandre Dumas Padre, invece, nel “Corricolo” la chiamò “Porta Bianca“, ma fu probabilmente proprio un errore dello scrittore francese, in quanto non si trova da nessuna parte questo soprannome per la porta.
Cosa c’era prima?
Al posto di Port’Alba c’era una parte delle antiche mura angioine, fatte costruire in epoca medievale da Carlo d’Angiò e dai suoi successori. 300 anni dopo la costruzione della struttura difensiva, il mondo era completamente cambiato e non servivano più le città fortificate: per fare un paragone del salto temporale occorso, dovremmo oggi confrontare la Napoli di Carlo di Borbone con la città moderna.
I napoletani, ribelli verso i nomi e verso gli impedimenti, decisero quindi di fare un buco nel muro per passare più agevolmente: gli ingressi più vicini erano la Porta di Costantinopoli, dalle parti del Largo delle Pigne (oggi Piazza Cavour) e la Porta dello Spirito Santo vicino Via Toledo.
Anonimi “artisti del buco” decisero quindi di demolire abusivamente parte delle mura difensive della città per entrare in modo più agevole dalle parti di Piazza Bellini: un’opera non da poco, considerando il fatto che le mura napoletane erano talmente spesse da essere considerate “impenetrabili”: avevano fermato Alfonso d’Aragona, Odetto di Foix e addirittura Belisario 1000 anni prima. Ma non fermarono i commercianti abusivi.
Piazza Dante non esisteva ancora: la zona chiamata “largo mercatello” era il secondo mercato di Napoli, nato in modo spontaneo proprio come Piazza Mercato. L’handicap della zona era l’accessibilità poco agevole: l’apertura di Port’Alba fu un’occasione eccellente per espandere la città a nord, lato Cavone e Via Pessina. In quegli anni nacque, non a caso, anche l’edificio dell’attuale Museo Nazionale.
Arriva Carlo di Borbone: il “salotto” della città
Re Carlo volle rivoluzionare Napoli, creando un nuovo volto elegante per Napoli grazie al geniale Luigi Vanvitelli, uno degli architetti più bravi dell’epoca: assieme all’edificio del Foro Carolino, l’attuale Convitto Vittorio Emanuele di Piazza Dante, Vanvitelli ridisegnò anche il volto di Port’Alba, rendendola in linea con lo stile architettonico nuovo della piazza. L’ultimo ammodernamento fu fatto nel 1796, con la statua di San Gaetano, uno dei patroni di Napoli, che fu messa sulla parte superiore di Port’Alba dopo la demolizione di un’altra delle tante porte di Napoli.
Fu da quel momento che, da mercato della frutta, lentamente Port’Alba cominciò ad ospitare i librai e i tipografi che nel frattempo si stavano muovendo dalla loro sede originaria, che era San Biagio dei Librai. Le bancarelle nel frattempo erano ancora lì e per un certo periodo ospitarono sia frutta che libri. Questa zona della città, su forte spinta di Carlo e Ferdinando IV, cominciò ad essere sempre più popolata, tant’è vero che proprio nel XVIII secolo fu messa la targa di una sentenza che impone ai commercianti di non piazzare più bancarelle o altri ingombri che ostacolano il passaggio dei residenti.
Da quel momento la strada è rimasta pressoché immutata e ancora oggi la possiamo vedere con gli stessi occhi di Re Ferdinando.
Le bancarelle, simbolo di Port’Alba
A distanza di più di due secoli la sentenza firmata da Ferdinando IV continua ad essere solo una decorazione della strada: ironicamente si trova proprio sopra i tavolini di Pizzeria Port’Alba, che hanno occupato parte della strada, e a fianco alle decine di scaffali e bancarelle di libri che caratterizzano la strada, nonostante la chiusura della storica Libreria Guida.
Un progresso però è stato fatto: i napoletani hanno smesso di chiamarla “Porta Sciuscella“, anche se c’è un cartello che ne ricorda il nome proprio all’inizio della strada. Per il resto, la bellezza caotica di Napoli è proprio riassunta lì, in quel tratto di strada in cui convivono fantasmi, storie e cultura.
-Federico Quagliuolo
Riferimenti:
Gino Doria, Le strade di Napoli, Ricciardi, Milano, 1982