Nella lunghissima passeggiata in basolato vesuviano della fabbrica Corradini di San Giovanni a Teduccio, che ti accompagna da ciò che rimane del Forte di Vigliena fino a Pietrarsa, è difficile non farsi prendere dai sensi di colpa nel vedere tanta meraviglia della natura stuprata senza pietà e senz’anima.
Un tempo questa era una delle più importanti acciaierie e fabbriche di armi in Italia. Oggi è diventato uno scheletro sul mare, fra promesse di un futuro mai realizzato e un passato troppo pesante.
Il passato industriale di San Giovanni a Teduccio
“Ci sono tracce di un impianto originario del ‘700“, spiega Marco Ferruzzi, architetto e attivista storico impegnato nella valorizzazione della fabbrica Corradini. In effetti, l’area est di Napoli, che parte con le antiche Fonderie De Luca di Via Gianturco e arriva fino a Pietrarsa, fu destinata interamente allo sviluppo industriale sin dai tempi dei Borbone, in special modo con Ferdinando II. Fu infatti proprio la squadra di governo del penultimo re delle Due Sicilie ad individuare la zona est della città come possibile luogo di sviluppo industriale. Si cominciò con Pietrarsa, che fu un attrattore di numerose attività commerciali affini alla produzione dei treni, un po’ come è accaduto con la FIAT di Pomigliano d’Arco tanti anni dopo.
Prima della rivoluzione industriale, la zona est di Napoli era nota come “le paludi” e abbondano infatti chiese e strade con il termine “padula” nel nome. Addirittura c’è una chiesa dedicata alla Madonna delle mosche, perché la zona era infestata dai fastidiosissimi insetti. San Giovanni, invece, era un piccolo casale alle porte di Napoli.
Per vedere la moderna San Giovanni a Teduccio dovremo aspettare il XIX secolo, quando i numerosi imprenditori svizzeri e inglesi (sotto i Borbone) e del Nord (dopo l’Unità d’Italia) decisero di fare massicci investimenti nell’agro napoletano, casertano e salernitano, per sfruttare le materie prime eccellenti e la forza lavoro più economica del meridione.
Fu così che nella periferia est furono rapidamente costruiti i siti produttivi che oggi sono diventati scheletri spettrali, come ad esempio la gigantesca fabbrica di conserve Cirio, che oggi è stata trasformata nell’Università Federico II.
I tempi del metallo
Erano però i tempi del metallo. E, complice la produzione incontrollata di armi e navi da guerra che troverà il suo culmine nella Prima Guerra Mondiale, l’economia dell’epoca si pensava potesse viaggiare attorno al lavoro degli operai nelle immense industrie metallurgiche.
Fu questo piano che portò alla “legge speciale per Napoli” del 1904, che di fatto diede il via libera all’edilizia incontrollata, distruggendo per sempre il litorale est e quello ovest, con la nascita dell’Ilva di Bagnoli sull’altro versante e con l’acquisto da parte di imprese del Nord Italia di tutte le aziende della costa est.
Ed eccoci qua nella Fabbrica Corradini, specializzata nella produzione di acciaio e armi, che, con le sue lamiere cadenti e le mura sul punto di crollare, non è affatto diversa dall’Italsider che ogni tanto ritorna sulle prime pagine dei giornali. Questa, però, non fa rumore.
Un polo metallurgico nazionale
Negli enormi capannoni industriali, quelli con i tetti che ancora mostrano le lastre d’amianto in bella vista, si può solo fantasticare sulle attività che svolgevano i 7500 operai della fabbrica Corradini. Si scorge una data su una targa: “1828“. Erano i tempi di Francesco I di Borbone e, al posto di questo stabilimento, era presente uno stabilimento per la produzione di guanti della Dent Allcroft&Co. Nulla che ci sorprenderà, se pensiamo che Napoli ha sempre vantato una delle più prolifere scuole di guantai d’Europa. Al fianco della Corradini rimase attiva anche una fabbrica di guanti, nota come De Simone.
La ciminiera dell’altoforno non è ancora crollata e sembra un gigantesco dito alzato alle spalle della ferrovia, che si trova proprio dietro la fabbrica. A ben vedere, invece, gli interni, mostrano tutti i segni del tempo. L’aggressività della salsedine ha corroso tutte le anime metalliche delle pareti e degli infissi, che stanno in piedi più per dispetto che per rispetto delle leggi della fisica.
La struttura moderna fu realizzata nel 1872, con lo “Stabilimento Metallurgico Deluy-Granier“: quest’ultimo era un ex operaio dello stabilimento della fabbrica Guppy, che riuscì a mettersi in proprio grazie agli investimenti del Banco di Genova, di Iupply, Mathieu e di due napoletani, Stefano Cas e Placido Carafa di Noja (discendente del famosissimo Duca di Noja del 1775), che possedeva anche una villa.
La lunghissima passeggiata sul mare, con le lastre di basolato vesuviano che non lasciano spazio all’invasione delle piante, si interrompe proprio con una villa dalla facciata completamente crollata, quasi come se fosse un alveare con vista panoramica. Guardandola alle spalle si capisce bene la violenza del mare: nell’ingresso posteriore infatti sono conservati ancora gli stucchi originali e si scopre che era proprio la villa dei Carafa di Noja, un tempo detta “della Ceramica”.
Fino agli anni ’60 del XX secolo è stata invece conosciuta come “Villa Corradini”, dato che apparteneva alla famiglia di imprenditori svizzeri proprietari della struttura.
La fabbrica Corradini, dal successo al disastro
Fu Giacomo Corradini, discendente di una famiglia svizzera trasferitasi a Napoli sotto la dinastia borbonica, a rilevare l’azienda di San Giovanni a Teduccio nel 1884, in piena crisi economica dovuta alle modeste attività di lavorazione del rame e, soprattutto, causata dal colera a Napoli, che fermò ogni attività economica della già debole ex capitale del Mezzogiorno. Una delle prime regole del mercato, però, è “sii affamato quando gli altri hanno paura“. E il capitalista svizzero decise di scommettere sul futuro dell’impianto metallurgico quando tutti lasciavano Napoli. La struttura, all’epoca, occupava solo il primo padiglione.
Le cose andavano bene: complice la corsa alle armi di fine ‘800 e la prima colonizzazione italiana, la fabbrica di San Giovanni a Teduccio si espanse e diventò specializzata nella produzione di armi da fuoco pesanti. Poi il governo Giolitti decise di ridurre gli stanziamenti sulle spese militari e l’impresa andò in crisi. La stagnazione finì nel 1904 quando, complice la Legge Nitti, le grandi aziende del Nord Italia decisero di “colonizzare” tutte le aree industriali di Napoli, invitati dagli enormi incentivi fiscali ed economici.
Le imprese metallurgiche di San Giovanni furono infatti acquistate dalle Officine Meccaniche Milanesi, in un’avventura che durò fino al 1949. Poi, come tante imprese della Campania, anche questa non riuscì più a riprendersi a causa degli eccessivi danni subiti durante il conflitto.
Che la zona di San Giovanni abbia sofferto più di altre la guerra lo si nota anche da un dettaglio: compaiono continuamente lungo il percorso alcune botole piccoli camminamenti murati, alcuni che ricompaiono dopo il crollo delle coperture. Marco Ferruzzi spiega: “sono per lo più ricoveri, è pericolosissimo visitarli“.
Fra il crollo e la riqualificazione
Il destino della fabbrica Corradini ha seguito un po’ quello del quartiere San Giovanni a Teduccio: dopo la guerra, stremato dai danni e abbandonato dagli imprenditori, ha visto timidi tentativi di riconversione con l’Agrimont (la divisione per i prodotti agricoli della Enimont), tutti finiti in fallimenti. L’evoluzione dell’economia e delle imprese, dal vecchio mondo operaio di fine ‘800 al capitalismo del dopoguerra, non ha conosciuto il suo step evolutivo nelle vecchie periferie industriali di Napoli, lasciando quartieri.
Nel 1990 si pensò di abbattere questo gigante del passato. Non si fece nulla: il Ministero per i Beni Culturali e Ambientali pose un vincolo di interesse storico e culturale, essendo un relitto di archeologia industriale di grandissimo interesse architettonico: all’epoca la struttura, nonostante i 50 anni di abbandono, era ancora in buone condizioni, con gli infissi originali ancora in bella vista e la sua colmata sul mare che poteva trasformarsi in una straordinaria passeggiata turistica per il quartiere.
Non se ne fece nulla. A nulla valse il master plan della società “Porto Fiorito”, concessionaria dal 2003, che immaginava nuove colmate, un porto turistico e avveniristici centri di cultura, artigianato e sedi universitarie. Anzi, addirittura la rimozione dell’amianto nei 18mila metri quadri di capannoni cominciò solo nel 2013 e, dopo numerosi cambi di progetto e sospensioni, nel 2021 ancora non è stata completata.
Nel frattempo la fabbrica Corradini è lì, divisa fra la bellezza di Capri che si guarda da ogni punto di quei buchi degli antichi edifici, e l’apocalisse ecologica di un mostro del passato che, mentre rilascia le sue sue scorie, riposa su un’antica spiaggia vulcanica ormai compromessa e perduta.
-Federico Quagliuolo
Grazie a Marco Ferruzzi per le informazioni storiche e per l’impegno nella tutela di questo patrimonio abbandonato.
Riferimenti:
Gregorio Rubino, Le fabbriche del sud, Editore Giannini, Napoli, 2011
https://derivesuburbane.it/archeologia-industriale/antiche-fabbriche/ex-corradini/
https://movimento.napoli.it/2019/07/ex-fabbrica-corradini-unopportunita-sprecata.html
https://www.ilmattino.it/napoli/citta/corradini_20mln_ancora_non_spesi_cade_pezzi_ex_industria_di_san_giovanni-6076793.html
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