La vita alla corte di Napoli, durante il dominio spagnolo, era un enorme teatro di formalità.
Il cerimoniale del Regno di Napoli, ai tempi del Viceregno, era caratterizzato da procedure estremamente lunghe, complesse, pompose e puntigliose: si diceva che alla corte del Viceré di Napoli i nobili fossero più sfarzosi ed eccentrici dei loro omologhi a Vienna e Madrid.
Ogni nobile del Regno di Napoli esigeva di essere chiamato in un determinato modo (Eccellenza, Signoria, Altezza, Vostra Signoria Illustrissima), e bisognava anche cambiare il registro verbale e la persona per ciascun ospite nel palazzo: ad alcuni bisognava dare il voi, ad altri invece la prima persona, ad altri ancora erano appropriati termini latini, mentre c’erano alcune nobiltà minori con le quali si poteva parlare anche con un linguaggio popolare. E ancora: chi doveva tenere il cappello e chi no? E chi si doveva sedere prima degli altri? Chi aveva il diritto di parola nel caso in cui due o più persone volessero parlare contemporaneamente?
Spesso bastava il minimo errore per mandare su tutte le furie l’interessato, che scriveva lunghe lettere di protesta addirittura a Sua Maestà di Spagna o, nei casi peggiori, si esaurivano gli affronti in duelli e vendette mortali.
Il sarto, che cuciva su misura questi vestiti di formalità sugli uomini di potere, era il Maestro di Cerimonia, un consigliere speciale di nobili e politici, presente in ogni palazzo nobiliare. Era infatti lui a possedere e conoscere a memoria il libro cerimoniere, un gigantesco codice di regole sociali compilato di anno in anno dai vari cerimonieri susseguiti nei palazzi. Di questi complessi codici ne abbiamo tantissime testimonianze conservate in biblioteche italiane e spagnole: il professor Attilio Antonelli, nella sua opera magistrale sui cerimoniali napoletani, ha tradotto interamente quello di Jusepe Renao ai tempi del Viceregno di Spagna.
Inchini, baciamano e palazzi affrescati
Per non parlare degli inchini, dei baciamano o delle precedenze fra titoli nobiliari: tutto doveva essere seguito con la massima attenzione e rispetto delle regole da parte del Viceré e della corte: i tribunali napoletani erano infatti spesso coinvolti in cause per lesioni dell’onore. Spesso non ci si faceva problemi anche ad uccidere per vendicarsi di qualcuno che non conosceva bene le regole della nobiltà e rompeva le regole per ignoranza o, peggio, per offesa.
Delle ragioni di certe consuetudini si perdeva addirittura la memoria, ma si portavano avanti con rigore e severità estrema: la distanza sbagliata fra un baldacchino e l’altro poteva portare diverbi e offese infinite fra un vescovo e un marchese, così come un giro a cavallo poteva essere un modo di accogliere un ospite di valore tanto quanto un’offesa per persone indegne.
Insomma, era dalle minuzie e dalle formalità che si decidevano i rapporti di forza fra tutte le persone notabili del regno.
Tutto era potenzialmente un simbolo di potere: dalla dimensione dei palazzi nobiliari costruiti senza regole che hanno affogato gli antichi cardini e decumani trasformandoli in stradine strettissime, agli affreschi sulle pareti che raffiguravano ogni sorta di bellezza, virtù ed elemento di prestigio: portare o meno un ospite ad osservare le proprie collezioni d’arte era parte stessa del rituale del potere.
Nel tempo i simboli di potere diventeranno collezioni di oggetti orientali, animali esotici e produzioni artistiche di ogni tipo. Napoli aveva diversi professionisti in quest’attività. Pensiamo a Ferrante Imperato.
All’epoca del governo del Duca d’Alcalà, il principe di Paternò si sposò con la figlia del viceré. Sua Eccellenza fece la cavalcata d’accoglienza, gli diede la destra e lo chiamò col titolo di Eccellenza. Tutto ciò fu accolto molto male dai presenti e da tutti quelli che lo vennero a sapere.
Un estratto del Cerimoniale di Jusepe Renao
Il Maestro di Cerimonia
A far le spese per gli errori erano solitamente gli addetti ai lavori: il Maestro di Cerimonia era infatti uno dei consiglieri onnipresenti in ogni casa nobiliare e nel palazzo del viceré: si metteva sempre alle spalle del padrone di casa e, sottovoce, sussurrava il corretto cerimoniale da svolgere per onorare gli ospiti nel modo corretto. I viceré li chiamavano in continuazione.
Questo enorme, pomposo e complicatissimo modo di vivere la vita pubblica piaceva tantissimo ai nobili napoletani e spagnoli che le domeniche mattina primaverili, a Posillipo, si sfidavano anche a passare la giornata sfidandosi a chi aveva barca più grossa e riccamente decorata. Tutto nei limiti delle puntigliose regole sociali: guai quando qualcuno ostentava una ricchezza maggiore di un titolo nobiliare superiore! Il cerimoniale e il suo teatro sociale era infatti un modo per dimostrare e celebrare il proprio potere.
Qui il viceré Gaspar Mendez de Haro nel 1685 progettò una bella vendetta sul generale delle Galere, il marchese di Cogolludo, che voleva fare “la passeggiata a Posillipo” con una barca dorata, damascata e ricoperta da centinaia di veli di seta e altri tessuti pregiati: era un’imbarcazione troppo bella, più di quella del viceré. Inaccettabile.
E allora gli fece mandare una lettera dal maestro di cerimonie Juan de Martiis, proibendogli l’uscita a Posillipo con la nave con questa motivazione: “in tre cose il generale delle galere non può avvicinarsi al viceré: non potrà portare carrozze a sei cavalli in città e tantomeno feluche dorate con guarnizioni di seta“.
In quell’occasione il marchese dovette far silenzio perché il viceré era la persona più potente del regno dopo il Re in persona. Quando nascevano controversie fra nobili sul cerimoniale e su chi dovesse vestirsi e uscire di casa nel modo più pomposo e vistoso, spesso, le vendette finivano addirittura nel sangue.
Le carrozze nel cerimoniale del Regno di Napoli
La questione delle carrozze a sei cavalli era anche sentitissima: dalle parti del Ponte della Maddalena, infatti, i nobili che non amavano le barche passavano le giornate a ostentare le proprie carrozze sempre più ricche, grandi e dai colori sgargianti. Alla fine del viceregno spagnolo, con l’arrivo degli austriaci, cadde la regola dei sei cavalli per il viceré e si ricorda una . Nel ‘600 infatti Napoli si distinse per una produzione eccezionale nel campo dell’artigianato delle carrozze, che si distinguevano per eleganza e sfarzo e attiravano l’invidia di tutte le corti italiane. La passeggiata della domenica diventò quindi l’ennesimo modo per la nobiltà di dimostrare uno status symbol attraverso.
Il problema diventò veramente colossale. Alla fine un Viceré austriaco emanò nel 1728 una prammatica: nessuno all’interno della città avrebbe dovuto portare una carrozza con più di 4 cavalli. Pena: una multa salatissima. Fu così che il principe di Stigliano, in segno di sfida, commissionò una carrozza gigantesca trainata da 20 cavalli. Al collo di ogni animale fece appendere un sacchetto con monete d’oro corrispondente all’intera somma della multa. E per un anno intero ogni domenica si vide questa gigantesca carrozza che invadeva l’intera strada di Via Marina sfidando il potere.
Arriva Carlo di Borbone
Questo complicatissimo codice del potere sarà completamente rivoluzionato con l’arrivo di Carlo di Borbone, che sentì il bisogno di rivoluzionare completamente il modo di presentarsi della città di Napoli: dopo 200 anni vissuti da provincia di un impero, Napoli di nuovo tornava capitale di un regno indipendente. E questo nuovo corso doveva essere dimostrato con una corte tanto ricca e sfarzosa quanto elegante e magnifica nei suoi cerimoniali.
Ci basta pensare che quando Carlo partì in Spagna, la regina Maria Amalia di Sassonia cadde in depressione. Abbiamo decine di lettere di lamentazioni e rimpianti inviate al fidatissimo Bernardo Tanucci, in cui la regina non risparmia critiche di ogni tipo agli spagnoli e al loro modo di vivere la vita che definiva “triste”, “malinconico”, “stupido e confuso”.
Insomma, l’obiettivo del nuovo re fu raggiunto ampiamente e ancora oggi ci sono testimonianze ovunque del vestito magnifico che Carlo cucì sulla capitale del Regno: da Capodimonte a Portici, arrivando alla Reggia di Caserta. E ancora, il Teatro San Carlo, la fabbrica di porcellane di Capodimonte, l’Acquedotto Carolino, gli scavi di Pompei e tantissime altre eredità culturali sono esse stesse parte di un cerimoniale della Corona che, ancora oggi, ci colpisce.
Il potere, in ogni sua veste, non è legittimato senza rigidissime formalità, rituali, cerimonie e codici.
L’abbiamo ammirato con la magnificenza delle corti antiche, l’abbiamo vissuto sulla nostra pelle con il rigore formale delle dittature, lo scopriamo ogni giorno nelle gaffe dei politici meno esperti che, inconsapevoli del valore della Storia, rompono le regole e i rituali millenari che definiscono da sempre i rapporti del potere umano.
-Federico Quagliuolo
Riferimenti e approfondimenti:
Attilio Antonelli, Cerimoniale del Viceregno Spagnolo, Arte’m, Napoli, 2015
Carlos José Hernando Sanchez, Tempi di Cerimonie: Miguel Diez de Aux e la corte vicereale di Napoli, Editori Paparo, Napoli, 2011
(14) (PDF) Cerimoniale e cerimonie di corte nel Settecento napoletano | Elena Papagna – Academia.edu
Rao_Clio-27.pdf (unina.it)
Progetto Cerimoniali / I Cerimoniali della Corte di Napoli
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