Un primato napoletano di cui non andare fieri. Fra Giugliano, con i suoi 123.000 abitanti, e Casavatore, con il record di 12173 cittadini per chilometro quadrato, quinta in Europa per densità abitativa dopo Barcellona, c’è da chiedersi cosa abbia portato la Campania Felix a diventare una delle aree d’Europa più densamente abitate.
Un sovraffollamento incontrollato, quello di Napoli, che in realtà è una caratteristica che accompagna la città sin dai tempi di Don Pedro di Toledo.
Ripercorriamo un po’ la Storia che ha visto la trasformazione di Napoli da “città gentile” a megalopoli caotica.
Fra il mondo antico e il Ducato
I primi dati che conosciamo su Napoli risalgono ai tempi dell’Impero Romano, quando la città era una delle più amate della Campania Felix, seconda a Capua e Pozzuoli. La città era nata attorno all’attuale Spaccanapoli (che ancora oggi, dopo quasi tre millenni, si sviluppa sullo stesso antico impianto cittadino) e rimase fedele alla sua forma originale anche ai tempi dei latini. Nel mondo antico si stima che Napoli sia arrivata ai tempi dell’Impero Romano a circa 50.000 abitanti, che era una cifra notevolissima.
Napoli, la città gentile
“Quando c’erano gli Aragona, Napoli era una gran signora“.
Non si sa con certezza chi disse questa frase, ma l’ammirazione verso la Napoli medievale era un sentimento molto diffuso in tutta Europa.
Oltre ad essere infatti uno dei centri della cultura italiana, la dinastia di Alfonso di Trastamara fu molto attenta anche nelle opere di urbanistica e di difesa di tutte le coste campane. Di questa città abbiamo diverse testimonianze ancora oggi, sopravvissute nelle mura imponenti di Porta Capuana e Porta Nolana.
I quartieri di epoca angioina sono invece rimasti intatti in buona parte nella loro forma e, paradossalmente, sono proprio quelle zone ad aver creato spesso guai. Buona parte sarà distrutta durante il Risanamento del 1884 proprio perché l’antico cuore medievale, che avremmo trovato oggi al posto di Corso Umberto, fu ritenuto incompatibile con qualsiasi standard di vita moderno.
Per avere un assaggio delle stradine strette di epoca angioina ci basta fare una passeggiata dalle parti del Borgo degli Orefici: Vico Strettola agli Orefici è rimasto identico a com’era 800 anni fa.
E poi Piazza Mercato nel XIII secolo fu la prima grande espansione della città al di fuori delle mura di Napoli, che però avvenne in modo talmente irregolare da creare una vera e propria baraccopoli che sarà risanata solo da Ferdinando IV di Borbone. E non dimentichiamo le varie “Rua”, che hanno conservato il nome antico di origine francese!
Tutti chiusi dentro le mura!
Tutto cambiò con l’arrivo dei Viceré. E il primo a cambiare il volto intero della città fu don Pedro di Toledo, la figura più ingombrante di tutta la Storia di Napoli fino ai tempi dei Borbone.
Dobbiamo infatti a lui due zone della città che oggi sono fra le più popolari: via Toledo e i Quartieri Spagnoli.
Il ‘600 napoletano lo spiega benissimo il professore Alfredo Buccaro, analizzando le prime carte della città. Fu lasciato campo libero alle istituzioni ecclesiastiche, che inondarono letteralmente la città di conventi, monasteri e luoghi di culto realizzati demolendo monumenti antichi, occupando spazi pubblici e riducendo le strade a vicoli strettissimi, spesso in totale impunità: il tribunale della Fortificazione, infatti, non fu un esempio di rettitudine e onestà. Non dimentichiamo gli edifici nobiliari: molti dignitari decisero di costruire giganteschi mausolei funerari nel pieno centro della città. Pensiamo ad esempio alla tomba del Pontano a Via dei Tribunali oppure all’infinità di cappelle nobiliari che hanno ridotto le strade di Napoli fino a farle diventare strettole senza luce.
D’altro canto, l’abusivismo edilizio era praticamente la regola in tutta la Napoli vicereale: nel 1566 fu vietata la costruzione di edifici al di fuori delle mura cittadine: questo editto rimase vigente fino al 1718.
Una scelta scellerata: la popolazione continuava a crescere, con Napoli che accoglieva ogni anno migliaia di disperati in cerca di fortuna dalle province di tutto il regno, la pressione sociale saliva oltre ogni misura, con episodi di intolleranza spesso efferati, e l’unica soluzione era creare nuove case demolendo gli antichi edifici o alzandoli fino a 5 piani, riducendo gli appartamenti a minuscoli tuguri e costringendo anche dieci persone a vivere negli stessi ambienti, mentre a distanza di pochi metri venivano costruiti i palazzi nobiliari che ancora oggi ci incantano.
Le conseguenze di questa scelta si videro tragicamente nel 1656, quando si abbatté sulla città il flagello della peste: dei circa 500.000 cittadini napoletani, ne sopravvissero meno di un terzo. E la morte non fece distinzione di classe sociale.
Terza dopo Parigi e Londra
Quando Carlo di Borbone giunse a Napoli e si fece incoronare re, si inaugurò un nuovo regno e un nuovo modo di intendere la città. Oltre alle tante residenze reali, all’attuale Piazza Dante e alle visioni urbane eleganti, si provò a costruire l’Albergo dei Poveri, il progetto più ambizioso di tutti. Tant’è vero che rimase incompleto.
Gli urbanisti del ‘700, infatti, cominciarono a porsi qualche domanda sulla abitabilità della città e fu così che i nuovi edifici In Campania cominciarono a nascere in zone ariose, con criteri razionali e più rispettosi dell’uomo.
Nel frattempo, la popolazione a Napoli continuava a crescere. Tornò nel XVIII secolo ad ospitare circa 500.000 abitanti, diventando la città più popolosa d’Italia e la terza in Europa dopo Londra e Parigi.
Abbiamo proprio l’esempio perfetto della “città ideale” dell’epoca: Cerreto Sannita, che fu costruita dopo un cataclisma che distrusse la città antica.
Gli interventi borbonici sotto il regno di Ferdinando II furono diretti proprio al miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini. Va inoltre segnalato che i Borbone furono i primi a promuovere una legislazione sui vincoli panoramici nell’edilizia, ma non siamo ancora arrivati nel tempo in cui si sentiva la necessità di ridurre la densità abitativa.
D’altronde le province della Campania erano tutte dedite all’agricoltura o a modeste industrie, nel Regno delle Due Sicilie continentale il problema dell’affollamento non era particolarmente sentito.
Fu perfezionata via Foria, ma soprattutto si cominciò a pensare a come risanare i quartieri più popolosi. Il medico Salvatore de’Renzi, autore del più importante trattato sulla peste a Napoli, fu infatti un grande sostenitore di un completo riassetto urbano.
C’erano tanti progetti per alleggerire il problema demografico di Napoli, poi l’Unità cambiò di nuovo le carte in tavola.
Il Risanamento
Che Napoli avesse un problema urbanistico alla base dei suoi disagi sociali lo avevano capito tutti prima dell’Unità, ma alla fine fu il sindaco Nicola Amore a firmare le carte per cambiare il volto del centro storico.
Il Risanamento ebbe il merito di regalare gli assi viari più importanti del centro storico di Napoli, ma distrusse completamente tutto ciò che era rimasto della città medievale. Più lontano, poi, nacquero il Vomero e Chiaia, quartieri borghesi con edifici belli, ampi e spaziosi: alla fine il problema del sovraffollamento di Napoli fu “risolto” semplicemente spostando i poveri, come denunciò anche Matilde Serao.
Fu una prima forma di speculazione edilizia da parte della Banca Tiberina e di altri attori che, come dimostreranno le inchieste di inizio ‘900, non operarono proprio in modo limpido.
Ne abbiamo parlato a lungo qui.
Napoli secondo il fascismo
Il più grande progetto organico per creare una Napoli futura e con spazi umani sostenibili arrivò solo nel 1939. Fu presentato con lo slogan: “La parola a Sua Maestà il Piccone“, perché gli urbanisti dell’epoca pensavano che c’era solo una soluzione per risolvere il problema del sovraffollamento di Napoli: distruggere tutto e costruire nuovi quartieri monumentali, ariosi e con una distribuzione della popolazione più omogenea. E il Centro Storico vide la nascita del Rione Carità e del monumentale ufficio postale a spese del monastero degli olivetani.
Ed eccoci, più in là, con Fuorigrotta, che doveva diventare un EUR in miniatura.
Degli antichi casali e della provincia, invece, la preoccupazione del regime era opposta: per farla uscire dalla secolare vocazione agricola si pensò di investire nella creazione di piccole città industriali attraverso una doppia azione: da un lato aziende di Stato e dall’altro investimenti di privati, per non ripetere l’errore fatto con la legge speciale per Napoli del 1904. Fu così che nacque ad esempio il mito di Pomigliano d’Arco, città dell’aeronautica e dei motori.
Le mani sulla città (e sulla provincia)
Dopo la II Guerra Mondiale Napoli diventò il simbolo della speculazione edilizia, quasi oscurando gli scempi di Roma, della Liguria e della Lombardia, che furono devastate in maniera non minore.
Prima del film “Le Mani sulla Città” di Rosi, infatti, l’abusivismo edilizio era soprannominato “rapallizzazzione” in “onore” di Rapallo.
Poi, Napoli salì sul palcoscenico e diventò simbolo di un’intera generazione che, con la complicità della politica del tempo, acquistava i terreni delle colline e del nord della Campania che, fino all’estensione dei territori di Napoli avvenuta nel 1926, era ancora considerata provincia cittadina: ci basterà pensare che l’antico Rione Alto ricadeva nel Comune di Chiaiano, così come tanti altri quartieri moderni, come Secondigliano e Ponticelli, erano comuni indipendenti. Il Vomero, invece, era la provincia agricola del popolosissimo quartiere dell’Avvocata.
Erano gli anni ’50 quando cominciarono i primi piani per la ricostruzione cittadina, con la logica che ha sempre contraddistinto: demolire l’antico per ricostruirci sopra qualcosa di nuovo. Insomma, l’ennesimo nuovo “strato” che andò a sommarsi ai precedenti e generò vere e proprie singolarità come il grattacielo dell’Hotel Panorama nel bel mezzo della cinquecentesca Via Medina.
Per far spazio alle nuove esigenze abitative e al boom demografico, si cominciarono a costruire edifici praticamente ovunque: la grande città diventò il mito da raggiungere per le province, abbagliate dalle nuove Fiat 500 e dalle Vespe, mentre scoprivano i supermercati, le grandi aziende e il benessere collettivo.
Il mattone non muore mai, le strade sì
Se un tempo Napoli era la capitale accentratrice, protetta e ricca di un regno, nella Campania degli anni ’60 l’ormai capoluogo non era più a capo di uno Stato, ma rimaneva comunque terra di conquista per il lavoro cercato da una provincia depressa, alla ricerca delle imprese ricostruite dopo la guerra e del riscatto sociale tramite la prestigiosa Università. Come sempre: gente nuova, palazzi nuovi. E la nuova zona industriale, costruita fra Caserta e Napoli, diventò un’area di speculazione che vide fiorire un’edilizia incontrollata da Arzano a Marcianise, che ancora oggi non si è fermata.
Quando nel 1967, con la legge 765, furono introdotte le prime restrizioni sulle regolamentazioni edilizie (prima si poteva costruire anche senza un piano regolatore e Napoli ne aveva uno risalente al 1939), era ormai tardi.
Quello del mattone era un affare in cui tutti sguazzavano: non c’erano infatti solo i grandi costruttori ad arricchirsi, ma anche i piccoli risparmiatori che investivano in cooperative o che semplicemente costruivano senza alcuna regola le case per sé e per le famiglie.
Il criterio era uno: fare più soldi possibile con la minore spesa. E allora si risparmiava sui materiali e si adottavano soluzioni architettoniche di ogni sorta, dalla riduzione dei soffitti di 30 centimetri per ricavare un piano in più ai famosi “piani ammezzati”.
Le strade erano un problema secondario: spesso si costruiva attorno a vecchi sentieri asfaltati come con San Giacomo dei Capri, altre volte si sovraccaricavano vecchie strade costruendo nuovi condomini da cinque o più piani, che poi nel corso degli anni si ingrandivano ulteriormente con due o più piani rialzati: questo è il caso del Vomero, salvato a metà dalla tangenziale nel 1975.
Insomma: si intasò per sempre la mobilità urbana, con le conseguenze catastrofiche che ancora oggi rendono Napoli e provincia paralizzate.
La Tangenziale, che fu inaugurata nel 1975, fu un vero miracolo per la mobilità, quanto l’Asse Mediano costruita un decennio dopo.
Vista da questa prospettiva, quando arrivò la crisi economica degli anni ’70, non ci stupirà notare che l’edilizia fu uno dei pochi settori che ebbe un’impennata: finito il Vomero, troviamo i Colli Aminei e Rione Alto costruiti da Ferlaino, il presidente del Napoli.
Finita Napoli, si cominciò a cercare aria in provincia: Marianella passò da piccolo borgo a distesa di edifici da 4 o più piani; l’agro Acerrano fu completamente distrutto così come il borgo di Chiaiano, che poi si trovò pure ad ospitare una discarica proprio sotto le rarissime ciliegie della Recca.
E fu così che, con la complicità di molte amministrazioni, si cominciò a costruire senza alcun criterio negli antichi campi di provincia dove prima c’erano solo coltivazioni. Poco più in là, sulla riviera Domizia, i costruttori e i piccoli proprietari diedero sfogo a ogni più perversa fantasia edilizia, creando fisicamente sulle spiagge case di vacanza che, dopo essere rimaste disabitate, diventarono il bersaglio di nuovi occupanti abusivi che oggi sono la croce di Castelvolturno.
In questa mischiafrancesca, lo Stato non poteva non metterci anche il suo zampino con il progetto visionario di Scampia, realizzato da Franz Di Salvo nel 1962 e finanziato dalla Cassa per il Mezzogiorno.
Uno sopra l’altro
Il terremoto del 1980 fu l’ultima ondata di abusivismo in Campania: in nome della ricostruzione e dell’emergenza, l’intera provincia di Napoli ha visto l’ennesima invasione di edifici costruiti, altri occupati abusivamente, molti di questi condonati con un’ondata di provvedimenti straordinari: 1985, 1994 e 2003. L’ultimo, nel 2021, ha “perdonato” gli abusivismi fatti prima del 1967.
I numeri attuali sono davvero preoccupanti e inimmaginabili nemmeno nella più lontana fantasia dei primi coloni greci. Se infatti l’area edificabile a Napoli è di fatto quasi finita con l’occupazione delle colline e di tutte le ex periferie industriali, la provincia è diventata una terra di conquista che, ancora oggi, è protagonista di cronache terribili, fra demolizioni di antichi casali settecenteschi, rifiuti nelle fondamenta e abusivismi che tengono sempre banco nelle cronache di tutti i giorni.
Secondo l’ISTAT, il 50% degli edifici in Campania è abusivo
Alla fine, in nome di una pace sociale e dell’impossibilità di radere al suolo metà Campania, si è andati avanti di condono in condono. Al 2015, secondo l’ISTAT, il 50% degli edifici della Campania era abusivo. Un altro record in Italia.
Anche se è Casavatore la città più congestionata d’Italia, passando dai 5.000 abitanti del 1971 al record di 21.000 del 1991, l’esempio di “rapallizzazione” più famoso è Portici: un tempo era nota per un primato ben più nobile, la prima ferrovia d’Italia, ed era considerata la porta del Miglio d’Oro. Per non menzionare l’intera area del Vesuviano, dove immensi terreni venivano venduti anche a meno di mille lire al metro quadro, lasciando spazio libero per la creazione di abitazioni e villette nel pieno della zona rossa.
E non dimentichiamo l’invasione di mezzi di trasporto privati: in alcune zone di Napoli si arriva a 11.000 automobili per chilometro quadrato, praticamente più veicoli che cittadini. È facile immaginare le conseguenze.
Questo “piccolo” excursus di 3000 anni ci ha fatto volare dal marmo dell’agorà di Piazza San Gaetano ai vetri e all’acciaio del Centro Direzionale, l’ennesima scommessa edilizia per “rivoluzionare” Napoli: l’idea di concentrare il potere cittadino venne in realtà già nel 1939, ma il quartiere del business fu inaugurato solo nel 1995 e doveva portare Napoli nel futuro separando il livello delle auto da quello dei pedoni, per creare uno spazio vivibile e più “umano”. Ma i napoletani non l’hanno presa affatto bene: al grido di “sembra un orinale” per la sua insolita modernità, il CDN è rimasto incompiuto, malandato e nel degrado.
Anche questo è un primato, seppur maltrattato: fu infatti la prima “City” moderna d’Italia.
Ed oggi, mentre gli occhi non hanno più lacrime per piangere i perduti panorami che fecero innamorare i pittori che visitavano la Campania Felix, Napoli cerca forse sottoterra il suo futuro, con le nuove infrastrutture che cercano di affrontare quella drammatica eredità cominciata a costruirsi, mattone su mattone, ben 500 anni fa.
-Federico Quagliuolo
Riferimenti:
Alfredo Buccaro, Giancarlo Alisio, Napoli Millenovecento, Electa Editore, Napoli, 2000
Giancarlo Alisio, Napoli e il Risanamento, Electa Editore, Napoli, 1988
Sergio Stenti, Napoli Moderna, CLEAN, Napoli, 2017
Cesare de Seta, Napoli dalle origini all’ottocento, Arte’m, Napoli, 2016
Giancarlo Alisio, Urbanistica Napoletana del Settecento, Edizioni Dedalo, Bari, 1979
Renato de Fusco, Architettura e urbanistica della Napoli contemporanea a oggi, Napoli, 1979
Roberto Pane, Napoli Imprevista, Torino, 1949
G. Russo, La città di Napoli dalle origini al 1860, Napoli, 1960
Italo Ferraro, Atlante della Città Storica, varie edizioni
Giornali:
“Napoli è sommersa dalle auto, il triplo di Roma e Milano”, articolo di Paolo Barbuto, Il Mattino edizione Napoli del 19/8/2021
Don Fastidio, L’edilizia napoletana nel XIV e XV secolo, Napoli nobilissima
Web:
https://www.gnosisarchitettura.it/it/progetto/747/sull-impossibilita-di-fare-architettura-a-napoli
https://www.corriere.it/scuola/secondaria/18_novembre_09/rapallare-o-riminizzare-storia-sfortunata-due-neologismi-ab9120e4-e2a0-11e8-86b9-0879a24c1aca.shtml
https://www.aiig.it/OLD_gennaio2019/wp-content/uploads/2015/05/documenti/carte_tematiche/italia_densita.pdf
https://vdnews.tv/article/italo-calvino-speculazione-edilizia/
https://www.corriere.it/speciali/2003/cronache/bruttaitalia/wwf/storiacondoni.shtml
https://core.ac.uk/download/pdf/11918509.pdf
https://www.jstor.org/stable/23720992
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